CaVegAntispecista 2023

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Quest’anno siamo arrivati alla XIII Edizione di CaVegAntispecista, che si terrà sabato 02 settembre dalle 10 in poi.

CaVegAntispecista è diventato negli anni un momento di approfondimento di tematiche legate all’antispecismo e affrontate in un’ottica intersezionale, ma è da sempre un’occasione di incontro, dialogo e scambio, un momento di convivialità per conoscere nuove persone, fare nuove amicizie e approfondire le vecchie.

La giornata si articolerà tra conferenze, dibattiti, proiezioni, musica e momenti di relax, primo fra tutti il pranzo condiviso: come sempre ogni partecipante è invitata/o a portare qualcosa da mangiare e/o da bere (rigorosamente 100% vegetale) da condividere con gli altri, sotto la piacevole ombra dei noci nell’amena cornice della laguna di Grado.

L’accesso all’evento è libero e gratuito previa prenotazione obbligatoria (email: tamarasandrin@virgilio.it o Whatsapp: 3714551002).

Programma:

10:00-10:30. Arrivo dei/lle partecipanti. Té, caffé, tisane.

11:00. Massimo Filippi, Presentazione M49. Un orso in fuga dall’umanità.

13:00. Pranzo condiviso

15:00. Aldo Sottofattori, L’illusione ecologista.

17:00. Letture antispeciste, di e con Teodora Mastrototaro.

19:00. Apericena.

21:00. Programma della serata in via di definizione.

Il paradiso delle pecore

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di Tamara Sandrin

Hokusen nohitsuji wakataru (The Sheep of North Korea Speak, Giappone 19341) è un documentario muto che racconta l’importazione di un congruo numero di pecore (circa 3000) dall’Australia in Corea del Nord: ci mostra il loro viaggio in nave, in treno e infine a piedi.
Ma non è tutto qui.
La particolarità sorprendente di questo documentario è costituito dal fatto che la “voce narrante”, nelle didascalie, sia quella di una delle pecore! L’oggetto del documentario diviene dunque soggetto dello stesso. Questo espediente ci cala subito in uno stato di stupore e di simpatia con le pecore che divengono inaspettatamente animali non solo senzienti, ma anche pensanti, dotati di intelligenza e socialità. La pecora narratrice descrive minuziosamente il viaggio e le condizioni delle pecore, fa la cernita di morti, nascite e malattie. Le immagini delle pecore sulla nave, in piccoli gruppi radunati in recinti di legno, si alternano alle didascalie, cartelli grigi o dipinti con temi bucolici orientali, alle immagini del mare. Primi piani delle pecore fanno da contrappunto alle immagini in campo medio della massa degli ovini. Poca importanza viene data alla figura umana che, pur presente, sembra essere aiuto e ancella delle “dominanti” pecore.
Nel racconto della pecora-narratrice le pecore sembrano padrone del loro destino, fremono d’impazienza per imbarcarsi e raggiungere la Corea del Nord, si addolorano per la perdita di alcune compagne e per la malattia di altre, gioiscono per la nascita degli agnelli. Il culmine della felicità è toccato quando finalmente raggiungono il “paese della quiete mattutina”2, dove sbarcano e possono pascolare in prati ricchi di leguminose, che loro adorano, e assaggiare i deliziosi germogli di larice giapponese, la cosa più buona che abbiano mai mangiato. Il confronto con la madrepatria australiana è inevitabile: con enfasi, sottolineata anche dalle immagini cariche di poesia delle pecore al pascolo, le didascalie affermano che realmente la Corea del Nord è il paradiso delle pecore.
Ma il viaggio non è ancora finito, stipate nei vagoni ferroviari devono affrontare una notte in treno: il portellone che si chiude sulle pecore ammassate mette momentaneamente a tacere la voce e le impressioni della pecora e sospende lo stupore idillico dello spettatore, che richiama alla mente altri treni e altre deportazioni di massa.
Una volta scaricate dal treno la pecora riprende la sua narrazione: con tenera ironia (possiamo quasi immaginarla mentre sorride) racconta che l’ultimo tratto da percorrere a piedi, di soli 63 chilometri, diviene un viaggio interminabile a causa degli agnelli che fanno gli agnelli: bevono quando vedono l’acqua e brucano quando vedono l’erba, ma la pazienza è una virtù delle pacifiche bestie.
Anche in queste sequenze l’uomo resta marginale. Alle panoramiche seguono riprese in campo medio, dettagli delle zampe delle pecore e inquadrature delle loro impronte sul terreno, riprese che continuano a dare l’idea di movimento preponderante nella prima parte del documentario e che costituiscono un escamotage per sottolineare l’impressione della strada percorsa e del tempo che scorre.

La fine del viaggio segna un punto di svolta.
La narrazione continua a essere soggettiva, ma la presenza della figura umana nelle sue funzioni di controllo diviene, quasi di colpo, invadente e intrusiva. Certo il corpo degli animali è ancora in primo piano, non più come corpo (apparentemente) libero e autodeterminato, ma come corpo manipolato: gli agnelli vengono castrati e viene tagliata loro la coda con un ferro rovente che ne cauterizza subito la ferita3 per «rendere più forti i loro corpi» (e fiaccare e piegare i loro spiriti), le madri vengono tosate e rimangono, così, nude e tanto leggere da poter volare.
Castrazione, taglio della coda e tosatura vengono effettuate da mani maschili. Questa sequenza presenta due particolari disturbanti e significativi.
Il primo: al termine della castrazione un uomo in abiti occidentali eleganti prende in braccio un agnellino, lo mostra alla cinepresa e ridendo gli tocca i genitali.
Il secondo: lo sfondo della didascalia che introduce la tosatura non è un cartello scuro o un paesaggio campestre, ma è l’immagine di una donna a torso nudo che, con le braccia alzate e piegate sopra la testa, mette ben in mostra i seni.
È palese la sessualizzazione del corpo delle pecore e il paragone con il corpo femminile ammette, senza mezzi termini e senza pudore, l’animalizzazione del corpo femminile e la sfruttabilità di entrambe da parte dell’uomo.
Seguono alcune sequenze in cui il corpo delle pecore è quasi scomparso, sequenze che mostrano la lavorazione della lana dalla cardatura alla filatura, dalla tessitura alla vendita dei tessuti: ora è il corpo umano a riempire la scena, la traccia animale rimane nella voce narrante e in quei fili di corpo cosificato che è la lana. Da notare anche che mentre il lavoro diretto sui corpi è faccenda “da uomini”, la lavorazione del prodotto secondario è quasi esclusivamente femminile (donne giovanissime ai fusi e ai telai).
Nonostante il dichiarato orgoglio della voce ovina narrante, con l’arrivo a destinazione è chiaro che abbiamo subito un inganno: quello che stiamo vedendo non è il resoconto di un viaggio della speranza verso la terra promessa, il quieto paradiso delle delle pecore, ma un fraudolento film di propaganda nipponica per l’autarchia produttiva della lana4 e per il risparmio di centinaia di migliaia di yen per gli importatori giapponesi.
Alla tenerezza è subentrata la consapevolezza. La voce delle pecore si sovrappone alla voce delle operaie e operai, dei narratori di regime, di tanti altri film di propaganda dall’URRS agli Stati Uniti.
La distonia giunge al culmine quando la pecora-narratrice declama tutte le virtù di se stessa come prodotto: con il suo vello si fabbricano caldi abiti, la sua carne è una delle più prelibate e apprezzate, dalle sue ossa si ricava la colla… della pecora non si butta via niente.

Da questo documentario emerge chiaramente la visione patriarcale e capitalistica dell’oggettivazione e mercificazione dei corpi femminili, animali e delle operaie. Le pecore, come una classe lavoratrice che non ha ancora preso coscienza, o che l’ha persa, sono fiere che il frutto del loro lavoro di riproduzione, i loro figli, e il loro stesso corpo vadano a ingrassare gli ingranaggi stritolanti di una classe economicamente, politicamente e culturalmente dominante. Si consegnano con abnegazione gioiosa nelle mani del capitalismo carnefice, si prostrano volontariamente per farsi schiacciare sotto il tallone di ferro dell’imperialismo colonialista, che ha annientato un popolo e la sua cultura: la parola pecora in Corea evoca sentimenti di pace e mitezza (lo abbiamo letto in una didascalia all’inizio del film) e questo, in un documentario di regime, suggerisce ancora un altro particolare inquietante, istituendo una sottile analogia tra le pecore e il popolo coreano, servo della gleba dell’impero feudale giapponese.
La pecora della Corea del Nord parla! E parla con l’esaltazione dello schiavo che non sa di essere tale. Ma parla chiaro e forte per chi sa sollevare il velo polveroso dell’inganno.

Note:

1 Il regista non è stato identificato.

2 Così veniva poeticamente chiamata la Corea.

3 la scena viene filmata un’unica volta, senza essere reiterata e moltiplicata, quasi a voler cauterizzare immediatamente anche la possibile offesa verso la sensibilità dello spettatore.

4 Negli anni Trenta la politica di sfruttamento del Giappone impose l’allevamento di ovini in Corea Settentrionale e la coltivazione del cotone in Corea Meridionale.

Ortoressia nervosa: nuovo spauracchio contro il veganismo?

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di Rodrigo Codermatz

Già da qualche anno, i mass-media e gli specialisti del settore dell’alimentazione hanno segnalato la diffusione di un nuovo disturbo, chiamato Ortoressia Nervosa (orthorexia nervosa ON) per indicare una vera e propria ossessione per il mangiare in modo sano.

Il termine ortoressia (da orthos, giusto, corretto, e orexis, appetito) fu utilizzato per la prima volta nel 1997 in un articolo sulla rivista Yoga Journal dal dietologo americano Steven Bratman1 per descrivere l’ossessione patologica riguardo al consumo di cibi sani, naturali, biologicamente puri, accompagnata da una forte preoccupazione circa le caratteristiche nutritive e organolettiche degli alimenti, che può impattare negativamente sulla qualità della vita e le relazioni interpersonali (isolamento sociale).

Molti autori sono concordi nell’intendere l’ON come una strategia di coping disfunzionale contro i ritmi e i costumi alimentari malsani della civiltà occidentale: come scrive Pollan2 nel suo Il dilemma dell’onnivoro, nelle società occidentali – quella statunitense in particolare – l’ON si sarebbe sviluppata come “paura per il cibo” in reazione alla diffusione di cibo spazzatura, contaminato, malsano, ipernutriente e dannoso per la salute e dall’altra parte elicitata dal bombardamento mediatico sulla bontà di alcuni alimenti “nuovi” ed estranei alla tradizione culinaria occidentale e sulla nocività di altri che ci hanno invece accompagnato nella crescita (ad esempio lo zucchero)3.

Certamente non si può ignorare l’insorgenza ed emergenza di questo nuovo e invalidante disagio psicologico specifico, tra l’altro costantemente in crescita nei paesi occidentali (soprattutto nella popolazione maschile over 30 anni).

Seppure il DSM-5 riconosca come patologico qualsiasi comportamento che porti alta disfunzionalità in ambito sociale, scolastico e lavorativo, la ricerca non ha ancora portato a criteri clinici condivisi e sufficientemente specifici, tali da distinguere l’ortoressia da altri disturbi dell’alimentazione o della personalità già presenti nel DSM. Infatti, l‘ortoressia nervosa attualmente non è riconosciuta come malattia o disturbo dell’alimentazione da nessun manuale diagnostico in uso, né dal DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, APA 2013)4 né dall’ICD-10 (OMS)5.

Uno dei motivi per cui l’ON non è ancora stata inserita all’interno dei disturbi della condotta alimentare (eating disorders ED), ad esempio, è che il suo esordio non sembra legato a una bassa autostima e le ossessioni del soggetto ortoressico non riguardano tanto il peso o la forma corporea (quantità) ma la purezza degli alimenti (qualità). Risulta facile, però, l’esito dell’ON in anoressia o bulimia.

Comune ai due disturbi sarebbe la presenza di un elevato perfezionismo e bisogno di controllo, rigidità, meccanismi fobici (malattie e contaminazione) e ipocondriaci. Spesso è presente il desiderio delirante di avere un corpo forte e resistente agli attacchi infettivi o al trascorrere del tempo centrato sull’idea che “tutta la salute dipende dal cibo”.

Sembra esserci quindi una relazione tra ortoressia nervosa e disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) nel senso che le persone che soffrono di DOC possono manifestare anche tendenze ortoressiche (Arusoĝlu et al., 2008)6 gravitanti attorno al dismorfismo corporeo (Bundros, Brytek-Matera e Agopyan, 2016)7, all’immagine del corpo,allo stile di attaccamento e all’autostima (Barnes e Catalbiano, 2017)8: anche narcisismo e perfezionismo sono tratti compresenti a comportamenti ortoressici (Oberle, Samaghabadi e Hughes, 2017)9.

Rimangono comunque molte incertezze circa l’eziologia, i fattori predisponenti e i criteri diagnostici dell’ON e, di conseguenza, risulta molto difficile la formulazione di strumenti di screening diagnostico validi e attendibili. Quelli esistenti (ORTO-15, Bratman Orhorexia Scale – BOT, Eating Habits Que – EHQ) sono molto discutibili e ambigui sia a livello propriamente clinico che psicometrico.

Non esistendo a oggi né una definizione universalmente accettata né dei criteri diagnostici formalmente riconosciuti, si intende per ortoressia nervosa (ON) l’ossessione patologica per i cibi “puri”, con conseguenti limitazioni sostanziali nella dieta e presenza di:

  • ruminazione ossessiva sul cibo: eccessiva preoccupazione circa la qualità del cibo, il rischio di contaminazione, la minaccia che sia sporco, non sano, non puro che si può trasformare in una vera e propria mania di persecuzione;
  • comportamenti ossessivi riguardanti la selezione, la ricerca, la preparazione ed il consumo degli alimenti (forte preoccupazione al pensiero di cosa mangiare con conseguente pianificazione dei pasti con diversi giorni di anticipo nel tentativo di evitare i cibi ritenuti dannosi, ad esempio, cibi contenenti pesticidi residui o ingredienti geneticamente modificati o “artificiali”, oppure ricchi di un componente ritenuto insano come lo zucchero o il sale; impiego di una grande quantità di tempo nella ricerca e nell’acquisto degli alimenti a scapito di altre attività; preparazione del cibo secondo procedure particolari ritenute esenti da rischi per la salute come, ad esempio, cottura particolare dei cibi o utilizzo di un certo tipo di stoviglie);
  • insoddisfazione affettiva e isolamento sociale dovuti alla persistente preoccupazione riguardo al mantenere le regole alimentari autoimposte (Brytek-Matera, 2012)10 e sentimenti di soddisfazione e autostima oppure di colpa e forte disagio a seconda dell’avere o meno rispettato le regole auto-imposte.

Questo quadro sembra abbastanza chiaro e coerente ma desta grossa perplessità se si vanno a consultare i diversi studi che lo propongono e lo sorreggono, risultato di una certa ricerca psicologica decisamente miope, disinformata e superficiale, disancorata da qualsiasi fondamento storico-sociale e politico e a dir poco “ideologica” (nel senso althusseriano e politico del termine).

Più volte, tra le motivazioni multifattoriali e le cause dell’ansia alimentare, accanto al bombardamento mediatico sull’alimentazione sana, l’eccessiva attenzione all’aspetto fisico, la tendenza a comportamenti ossessivo-compulsivi e all’ipocondria, troviamo le “motivazioni etiche e religiose” che, secondo alcuni autori, porterebbero all’eliminazione dalla dieta di alimenti importanti per il valore nutrizionale del fabbisogno giornaliero. Cosa che costituisce chiaramente un’infondata generalizzazione.

A ruota libera vengono presi in ballo il vegetarianesimo e il veganismo (con grande confusione e indistinzione tra dieta vegetariana e vegana e tra il veganismo salutistico e quello etico e antispecista) che diventano non solo sintomo ma vero e proprio marker di vulnerabilità e fattore predisponente all’ortoressia. Si ipotizza anche che le persone vegetariane/vegane provino paura non solo della contaminazione fisica ma addirittura della perdita di una purezza simbolico-identitaria o etico-ideologica; le persone vegetariane/vegane, come presunte ortoressiche, cadrebbero presto vittima di eccessi di autostima, di senso di superiorità, presa di distanza e vera e propria intolleranza verso altri tipi di dieta che sfocerebbero inesorabilmente nell’isolamento sociale,con il risultato di divenire quasi degli asceti alimentari.

Esistono diversissimi studi a riguardo, tra i quali uno in particolare11, i cui dati – estratti da un campione spagnolo – sembrano confermare una maggior probabilità di sviluppare preoccupazioni patologiche circa il cibo in individui che seguono una dieta vegana e vegetariana rispetto agli onnivori.

L’ambivalenza e l’attuale inconsistenza e confusione teorica circa il costrutto ortoressia, l’incertezza sull’oggetto preciso dell’indagine e sul fine della ricerca e soprattutto la poca affidabilità e validità dei test di screening, si riflettono inevitabilmente nei diversi studi e disegni sperimentali che sono fortemente contrastanti e spesso vanno in direzioni opposte (cfr. Brytek-Matera et al., 201912, Çiçekoğlu and Tunçay, 201813, Barthel et al., 201814). Lo stesso studio sul campione spagnolo appena citato è, a mio parere, già viziato nella composizione e selezione del campione: innanzitutto risulta molto sproporzionato per genere e stato civile, inoltre – come in tantissimi altri studi e disegni sperimentali sull’argomento – manca ogni distinzione tra i vari sottogruppi vegani: c’è una grande differenza tra un vegano salutista e un vegano etico (antispecista); tra i vegani antispecisti, ad esempio, sembra non essere così centrale e predominante questa particolare attenzione e preoccupazione per l’aspetto “sano” del cibo: distinguendo i campioni per motivazione probabilmente otterremmo dei risultati molto diversi, del tutto comparabili ai quelli dell’onnivoro tipico e “normale”, come tra l’altro sembra apparire dai dati della stessa ricerca. Comunque, concludono gli autori:

[…] we do not consider as a possible diagnostic criterion of ON the fact of reducing meat for compassionate or ethical reasons. In fact, the food restrictions associated with this pathology have another direction very diferent from the one defended by most philosophies in line with vegetarianism and go more in the direction of food purity. There is a continues debate between differerent researchers about the criteria of ON. The fact of studying individuals with dierent dietary restrictions can provide us with very valuable information even though the existence of a connection between ON and different types of diets is still not fully established. Recently, there has been an attempt to examine whether there is a possible cause–effect relationship between making specific dietary decisions and the appearance of ON […] For example, in the case of vegetarians, where we cannot dismiss the existence of ON, but where it is important to clarify that a certain philosophy, in itself, or the adoption of a vegan diet are not risks, per se, with regards suffering pathological orthorexia; rather, these dietary habits could be framed within a healthy dimension of orthorexia […] This study has several limitations. First, we used a classification of vegetarianism and veganism based on self-reported eating behaviors. Therefore, our results may be specific for self-reported vegetarians and vegans and cannot be generalized to all those who follow a vegetarian or vegan diet […] (Parra-Fernandez et al., 2020)15

Forse queste ricerche, spesso carenti di informazione, peccano di una forte de-contestualizzazione e rischiano di riconoscere come sintomi comportamenti del tutto normali e funzionali in un dato contesto sociale. Ovviamente in una società specista, onnivora e carnista vien da sé che l’onnivoro sia meno preoccupato e più a suo agio rispetto al vegano sempre preso dal reperire, selezionare e informarsi sulle qualità dei prodotti di un mercato completamente nuovo, quale quello delle diverse e sempre nuove linee alimentari vegane, che negli ultimissimi anni si stanno diffondendo sul mercato. Penso sia un diritto di ogni cittadino (vegano e non) dedicare del tempo a informarsi e accertarsi della qualità dei prodotti alimentari, come credo non possa essere considerato un sintomo, per quanto riguarda il veganismo etico, il sentirsi bene, soddisfatti e avere un’alta autostima quando si riesce a mantenere un comportamento etico (quindi non solo alimentare) che eviti la sofferenza ad altri esseri senzienti e che, al contrario, ci si senta frustrati o insoddisfatti, qualora questo si renda impossibile, o a disagio (reciproco) nel condividere il momento dei pasti con chi continua acriticamente a fondare i suoi “piaceri di gola” sulla sofferenza animale. Ritengo comunque che l’isolamento (altro presunto criterio diagnostico dell’ortoressia) sia in questo caso subìto più che agito, con l’attivazione di un comportamento che in psicologia sociale viene definito esclusione , stigma alimentare o ostracismo.

Per quanto riguarda il cliché comune del vegano come persona di buona condizione economica e estrazione sociale che consuma cibi ricercati e costosi ben si adatta a un altro criterio diagnostico dell’ortoressia che, però, nelle ultime ricerche accoglie sempre meno consensi.

Per concludere, il costrutto nosologico dell’ortoressia è alquanto impreciso e ambiguo nella sua eziologia e nei suoi criteri diagnostici; tale imprecisione, confusione e superficialità possono favorire il rischio di creare e “manualizzare” una nuova etichetta clinico-nosologica atta a normativizzare e performare pseudo-diagnosi non inclusive e pregiudizievoli verso scelte etiche (animalismo, antispecismo) e conseguenti comportamenti alimentari atipici (ricerca, selezione, controllo e pianificazione “ossessivi”, eccessivo investimento cognitivo e temporale) frutto non tanto di processi psichici disturbati (DOC, ipocondria, narcisismo, dismorfismo etc.) ma dell’architettura e dell’ideologia stesse (ad esempio, lo specismo) del sistema socio-economico e ri-produttivo in cui si vive, a partire semplicemente dal prodotto alimentare che il sistema decide di vendere e dalla sua presenza, assenza o posizione sugli scaffali del supermercato.

La clinica rischia in tal modo non solo di emettere diagnosi e terapie errate e infondate ma anche di rendersi ancilla di un potere politico ed economico che vuole rendere la massa acritica e fagocitante non concedendo neppure il tempo di informarsi su cosa/chi stia incorporando: una massa di miopi ipervoraci.

In sostanza, non sto affatto negando l’esistenza di un disturbo nuovo definito ON ma semplicemente constatando che l’attuale confusione e ambiguità dei criteri eziologici e diagnostici dedotti da studi, ricerche e supposizioni, che sottovalutano o ignorano del tutto la dimensione socio-economica e politica e soprattutto la dimensione contestuale e si basano su strumenti psicometrici ancora incompleti, può contribuire a rendere il compito diagnostico e la psicologia clinica in toto strumenti ideologici e riproduttivi di un sistema storico comunque epocale e politico col rischio di “mentalizzare” strutture e architetture politiche quali possono essere un semplice supermercato, un reparto di questo supermercato, uno scaffale di questo reparto, un barattolo su questo scaffale, un’etichetta di questo barattolo, un preciso ingrediente di questa data etichetta.

Lungi dai miei intenti anche affermare che non ci siano vegani (soprattutto salutisti) ossessionati, compulsivi, ritualistici con comportamenti e convinzioni estreme e paranoici: certo, ma questi disturbi non possono, forse e seppur in minima misura, essere anche indotti dalla situazione sociale e interpersonale reale, concreta e quotidiana che vivono nella quale, non tanto un presunto disturbo, ma quanto una convinzione etica e una semplice scelta dietetica fanno “terra bruciata” attorno a loro, “isolandoli”?

Questi fattori situazionali, questa dimensione interpersonale, culturale, sociale e antropologica è veramente e seriamente presa in considerazione da queste proposte diagnostiche che spesso peccano di “mentalismo”? Questi ricercatori si son mai “messi a tavola” (che elemento architettonico ideologico la tavola!) con altre culture e altre religioni? È indiscutibile la centralità del pasto in tutte le culture, civiltà, società e religioni del pianeta: il pasto è il più importante rito di coesione e identificazione sociale e religiosa e direi anche personale (no si dice forse “quella ragazza, quel ragazzo, quella persona, quello spettacolo, quel programma, quella canzone, quel libro, ecc. è/non è di mio gusto”?). Inoltre, come detto sopra, la società occidentale fa dell’oralità un suo strumento strategico, per far regredire e perdere le acquisizioni in fatto di spirito critico, dialettico, etico, morale e politico, per rendere piccoli, beati, felici e sazi come principini autistici attaccati al capezzolo del consumismo.

Quindi, in questo complessivo panorama di confusione sull’effettiva relazione che intercorre tra una scelta dietetica e l’ON, forse sarebbe meglio ritornare alla semplice formulazione dell’ON come ossessiva preoccupazione per il consumo di cibi sani e indagare il rapporto che intercorre tra la convinzione “io-interno-sano” v/s “altro-esterno-impuro” e la nozione stesso di confine e identità corporea, e tra un incorporamento “sano” e uno “insano”, problematizzare la vulnerabilità, sottigliezza, trasparenza e inconsistenza vissute di questo confine; rivedere meglio l’ipotesi dell’ON come una forma di disturbo ossessivo-compulsivo, di dismorfismo o disturbi ell’alimentazione e procedere cautamente, se non proprio escludere a priori le convinzioni etiche e religiose quali componenti eziologiche del disturbo, a rischio di offrire un nuovo e pericoloso strumento di repressione, stigma ed esclusione alla massa stessa.

1Bratman, S. (1997). Health food junkie. Yoga Journal, 8: 42-50.

2Pollan, M. Il dilemma dell’onnivoro, Milano, Adelphi, 2013.

3McGregor, R. (2017). Orthorexia. When healthy eating goes bad. London: Nourish.

4American Psychiatric, Association. Diagnostic and statistical manual of mental disorders, fifth edition (DSM-5®). Washington: APA; 2013. Da non confondere l’ortoressia con il disturbo evitante/restrittivo nell’assunzione di cibo definito dal DSM-5 (p. 385 e segg.) dove l’evitamento e la restrizione dell’assunzione di cibo possono essere causati da un’estrema sensibilità alle caratteristiche sensoriali delle qualità di cibo quali l’aspetto, il colore, l’ odore, la consistenza, la temperatura, il gusto (per cui si parla di alimentazione restrittiva, selettiva o schizzinosa) come può darsi nell’autismo; mentre il disturbo evitante/restrittivo nell’assunzione di cibo è un fenomeno tipico dell’infanzia e della prima adolescenza, l’ortoressia che, ricordiamolo, è un disturbo ossessivo per il cibo “sano” e “puro”, è tipica di un’età più matura e adulta (attorno ai 30 anni).

5The Icd-10 Classification of Mental and Behavioural Disorders: Clinical Descriptions and Diagnostic Guidelines. (1992). World Health Organization (WHO).

6Arusoĝlu, G., Kabakçi, E., Köksal, G., & Merdol, T.K. (2008). Orthorexia nervosa and adaptation of ORTO-11 into Turkish. Turk Psikiyatri Derg.,19(3): 283–291.

7Bundros, J., Clifford, D., Silliman, K. e Neyman Morris, M. (2016). Prevalence of Orthorexia Nervosa among college students based on Bratman’s test and associated tendencies. Appetite; 101: 86-94.

8Barnes, M.A. e Caltabiano, M.L. (2017). The interrelationship between Orthorexia Nervosa, perfectionism, body image and attachment style. Eat Weight Disord., 22: 177-84.

9Oberle, C.D., Samaghabadi, R.O. e Hughes, E.M. (2017). Orthorexia Nervosa: assessment and correlates with gender, BMI, and personality. Appetite, 108: 303-10.

10Brytek-Matera, A. (2012). Orthorexia nervosa – an eating disorder, obsessive–compulsive disorder or disturbed eating habit? Archives of Psychiatry and Psychotherapy, 1, pp. 55–60.

11Parra-Fernando, M. A., Manzaneque-Cañadillas, M., Onieva-Zafra, M. D., Fernández-Martínez, E., Fernández-Muñoz, J. J., del Carmen Prado-Laguna, M. e Brytek-Matera, A. (2020). Pathological Preoccupation with Healthy Eating (Orthorexia Nervosa). A Spanish Sample with Vegetarian, Vegan, and Non-Vegetarian Dietary Patterns, Nutrients, 12(12), 3907. Dai risultati della ricerca risulta che il 58.2% di vegani, il 24.1% di vegetariani e il 17.7% di onnivori sarebbero a rischio di ON.

12Brytek-Matera, A., Czepczor-Bernat, K., Jurzak, H., Kornacka, M. e Kołodziejczyk, N. (2019). Strict health-oriented eating patterns (orthorexic eating behaviours) and their connection with a vegetarian and vegan diet. Eat. Weight Disord, 24, 441–452.

13Çiçekoğlu, P., eTunçay, G.Y. A. (2018). Comparison of Eating Attitudes Between Vegans/Vegetarians and Nonvegans/Nonvegetarians in Terms of Orthorexia Nervosa. Arch. Psychiatr. Nurs., 32, 200–205.

14Barthels, F., Meyer, F. e Pietrowsky, R. (2018). Orthorexic and restrained eating behaviour in vegans, vegetarians, and individuals on a diet. Eat. Weight Disord. Stud. Anorex. Bulim. Obes, 23, 159–166.

15Trad.: “non consideriamo come possibile criterio diagnostico di ON il fatto di ridurre la carne per motivi compassionevoli o etici. Infatti, le restrizioni alimentari associate a questa patologia hanno un’altra direzione molto diversa da quella difesa dalla maggior parte delle filosofie in linea con il vegetarianesimo e vanno più nella direzione della purezza alimentare. C’è un dibattito continuo tra diversi ricercatori sui criteri di ON. Il fatto di studiare individui con diverse restrizioni dietetiche può fornirci informazioni molto preziose anche se l’esistenza di una connessione tra ON e diversi tipi di diete non è ancora del tutto stabilita. Recentemente, c’è stato un tentativo di esaminare se esiste una possibile relazione causa-effetto tra prendere decisioni dietetiche specifiche e la comparsa di ON […] ad esempio, nel caso dei vegetariani, dove non possiamo negare l’esistenza di ON ma è importante chiarire che una certa filosofia o l’adozione di una dieta vegana non sono rischi di per sé, per quanto riguarda l’ortoressia patologica; piuttosto, queste abitudini alimentari potrebbero essere inquadrate all’interno di una dimensione salutare dell’ortoressia […] Questo studio ha diversi limiti. In primo luogo, abbiamo utilizzato una classificazione di vegetarianismo e veganismo basata su comportamenti alimentari auto-riportati. Pertanto, i nostri risultati possono essere specifici per vegetariani e vegani auto-dichiarati e non possono essere generalizzati a tutti coloro che seguono una dieta vegetariana o vegana […]

Corpo di donna

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di Tamara Sandrin

Corpo di donna,
oscura vallata
e tiepidi abissi.

A ogni colpo
il tuo cuore
è scarnificato.

E hai fatto il tuo corpo
sottile e inafferrabile
e hai coperto i tuoi occhi,
gli occhi della mente,
con una foglia
gialla e umida.

Le braccia morte
lungo il fianco
e sulle gambe
un po’ di fango, erba marcia
e qualche mallo di noce.
La stessa sporcizia
dentro di te.
Dentro di lui.

Ora quella vallata
è bruciata
Sono nate fabbriche
e ciminiere.
Morta.

Il canto delle crisalidi

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di Tamara Sandrin

Il 17 ottobre di centodieci anni fa Carlo Michelstaedter si tolse la vita con un colpo di pistola. Oltre che pittore e poeta, il giovane filosofo goriziano fu un precursore dell’esistenzialismo: lontano e isolato rispetto all’atmosfera filosofica e letteraria italiana (pur studiando a Firenze), in pochi anni e in pochi scritti riuscì a dare corpo e a trasmetterci il suo limpido e desolato pensiero, la sua visione sulla vita e la morte, l’amore, l’universo, la società e il nulla.

Lo vogliamo ricordare con alcune sue poesie.

Il canto delle crisalidi

Vita, morte,
la vita nella morte;
morte, vita,
la morte nella vita.

Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte
filammo a questa morte.

E più forte
è il sogno della vita –
se la morte
a vivere ci aita

ma la vita
la vita non è vita
se la morte
la morte è nella vita

e la morte
morte non è finita
se più forte
per lei vive la vita.

Ma se vita
sarà la nostra morte
nella vita
viviam solo la morte

morte, vita,
la morte nella vita;
vita, morte,
la vita nella morte. –

Risveglio

Giaccio fra l’erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m’accarezza,
e sfiorano il mio capo i fiori e l’erbe
ch’agita il vento
e lo sciame rombante degl’insetti. –
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro,
e trae nell’alto vasti cerchi il largo
volo de’ falchi…
Vita?! Vita?! qui l’erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gl’insetti, qui gli uccelli,
e pur fra questi sente vede gode
sta sotto il vento a farsi vellicare
sta sotto il sole a suggere il calore
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch’io chiamo «io», ma ch’io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l’erbe sulla terra,
più ch’io non sia gli insetti o l’erbe o i fiori
o i falchi su nell’aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso –
altro sole, altro vento e più superbo
volo per altri cieli è la mia vita…
Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?
Che è questa luce, che è questo calore,
questo ronzar confuso, questa terra,
questo cielo che incombe? M’è straniero
l’aspetto d’ogni cosa, m’è nemica
questa natura! basta! voglio uscire
da questa trama d’incubi! la vita!
la mia vita! il mio sole!

                                  Ma pel cielo
montan le nubi su dall’orizzonte,
già lambiscono il sole, già alla terra
invidiano la luce ed il calore.
Un brivido percorre la natura
e rigido mi corre per le membra
al soffiare del vento. Ma che faccio
schiacciato sulla terra qui fra l’erbe?
Ora mi levo, ché ora ho un fine certo,
ora ho freddo, ora ho fame, ora m’affretto,
ora so la mia vita
ché la stessa ignoranza m’è sapere –
la natura inimica ora m’è cara
che mi darà riparo e nutrimento,
ora vado a ronzar come gl’insetti. –

                         Sul S. Valentin, giugno 1910

All’Isonzo

Dalle nevose gole, dai torbidi
monti lontani con lena rabida,
con aspro sibilo soffia la raffica,
rompe la densa greve nebbia,
stringe le basse grigie nubi
e le respinge in onde gravide.

Passa radendo sui pioppi tremoli
– sul nero piano incombe il peso
della ciclopica lotta dell’etere.
Ma a lei più forte risponde l’impeto
selvaggio e giovine del fiume rapido
cui le corrose ripe trattengono:
il suo possente muggito al sibilo
della procella commesce e il vivido
chiaror del lontano sereno
riflette livido, nell’onda torbida.

E al mar l’annuncio porta della lotta
che nebbia e vento nel ciel combattono,
al mar l’annuncio porta del tumulto
che in cor m’infuria quando la nausea,
quando il torpore, il dubbio, l’abbandono
per la tua vista, Argia, più fervido
l’ardir combatte e sogna il mare libero.

Notte del 22 settembre 1910

Freud e il “colpo biologico” al narcisismo umano

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di Rodrigo Codermatz

Nel piccolo articolo Eine Schwieriggkeit der Psychoanalyse[1] del 1917, Freud parla di una difficoltà di ordine affettivo, un’antipatia che “aliena i sentimenti” di coloro che vengono in contatto con la psicoanalisi rendendoli meno inclini a comprendere o provare interesse per questa. Da cosa nasce tale avversione? Certamente dall’importanza psichica della sessualità e l’incoscienza della vita psichica che la psicoanalisi rivendica, sì tanto angosciose per il narcisismo, conclude alla fine dell’articolo l’autore.

Presupponendo di interloquire con lettori mai accostatisi prima alla psicoanalisi, Freud parte col delineare un veloce quadro delle teorie fondamentali della psicoanalisi partendo dalla teoria della libido: per chiarire e rimuovere il disturbo nervoso è necessario, infatti, secondo Freud, rifarsi alla vita istintuale della mente, all’ipotesi degli istinti dell’uomo.

Data l’inadeguatezza della psicologia insegnata all’università a dare risposta alle nostre domande psichiche, Freud si richiama all’opinione popolare che distingue tra fame a amore, conservazione dell’individuo e riproduzione della specie, e parla di istinti dell’Io e istinti sessuali.

La libido è il desiderio sessuale, la forza tramite la quale gli istinti sessuali si manifestano nella psiche, una forza analoga a quelle che sono la fame e la volontà di potenza nella sfera dell’Io. I disturbi della funzione sessuale (cioè l’accumulo di libido e la possibilità di soddisfarla o scaricarla) stanno alla base dei disturbi nevrotici e la forma di questi è segnata dalla fissazione che la libido ha subito nel corso del suo sviluppo. Il sintomo nervoso nasce quando l’Io riconosce pericolosi per la sua sopravvivenza gli impulsi sessuali, li reprime, li rimuove o li sublima.

Freud, quindi, riprende il discorso sul narcisismo già affrontato tre anni prima in Zur Einführung des Narzissmus[2] partendo dallo studio della schizofrenia e della paranoia.

Alla nascita, tutta la libido, l’energia legata alla pulsione sessuale (tutte le tendenze erotiche e la capacità d’amare) è legata all’individuo stesso, si riversa cioè totalmente sull’Io (libido dell’Io) e non se ne distingue: il neonato non è in grado ancora di distinguere tra Sé e non Sé ed è totalmente centrato su di Sé in una situazione privilegiata di centralità assoluta e di onnipotenza allucinatoria (His Majesty the baby): Freud definisce questa prima fase evolutiva narcisismo primario.

Solo in un secondo momento la libido passa dall’Io agli oggetti (rappresentazione mentale o ricordo dell’oggetto esterno): amare significa allora investire libidicamente un oggetto (il bambino piccolo investe libidicamente la rappresentazione mentale della madre) e si ha il passaggio alla libido oggettuale distribuita in misura variabile tra l’oggetto e il soggetto che, in questa dialettica, sono complementari, due vasi comunicanti: un investimento dell’oggetto comporta un ritiro della libido dal Sé e viceversa. Freud non usa ancora il termine “Sé” ma dice “Io” intendendo sia la coscienza sia la rappresentazione intrapsichica di noi stessi. Una parte di libido va quindi ceduta all’oggetto mentre un’altra rimane sul Sé (narcisismo residuo) e più forte è il mio investimento oggettuale più debole sarà il mio narcisismo residuo e più starò male, sarò depresso: l’omeostasi emotiva e il benessere constano infatti nel drenare la libido dall’oggetto per riportarla a incrementare il mio narcisismo residuo.

L’individuo quindi passa dal narcisismo primario della nascita all’amore per un oggetto ma una parte della libido deve rimanere pur sempre fissata all’Io: sussiste sempre in noi una dose di narcisismo. L’Io viene ad essere quindi un grande serbatoio dal quale la libido fluisce verso gli oggetti per investirli per rifluire poi nuovamente nel serbatoio dell’Io. Questa fluidità della libido è necessaria alla normalità: al contrario la condizione patologica in cui l’Io mantiene per sé la libido viene definita da Freud “narcisismo”.

Freud estende il narcisismo primario ad una dimensione filogenetica e parla del narcisismo dell’uomo primitivo che, al pari del neonato, crede nell’onnipotenza dei suoi pensieri che, tramite la magia, può interferire e influire gli eventi esterni.

In Totem und Tabu. Über einige Überinstimmungen im Seenleben der Wilden und der Neurotiker[3] edito qualche anno prima (1913) Freud aveva parlato dell’animismo primitivo, della stregoneria che tratta gli spiriti come se fossero uomini, della telepatia, del cannibalismo (mangiare qualcuno per assumerne le forze e le virtù), dell’associazione di idee che pone le leggi psicologiche (umane) al posto di quelle naturali dando luogo alla magia imitativa (associazione per similarità) o alla magia contagiosa (associazione per contiguità), della magia come fiducia enorme e realizzazione dei propri desideri (proprio al pari della soddisfazione allucinatoria del bambino), come tecnica dell’animismo e onnipotenza dei pensieri, del narcisismo intellettuale come ipercatexi libida (Freud rimanda al caso dell’uomo dei topi in Bemerkungen über einen Fall von Zwangsneurose[4] del 1909), dell’allucinazione motoria dell’uomo primitivo che è simile al gioco del bambino.

Questo narcisismo, questo senso di onnipotenza filogenetico e universale, quest’amore che gli uomini continuano a portare per se stessi, l’egoismo umano, estendendosi nel tempo, ha ad un certo punto subìto, secondo Freud, tre grossi scacchi, tre grossi colpi:

In primis il colpo cosmologico: dapprima i Pitagorici, poi Aristarco di Samo e infine Copernico hanno distrutto l’illusione e la convinzione che la Terra e l’uomo quale suo abitante fossero il centro dell’universo.

Il terzo colpo, di natura psicologica, è, dice Freud, il più tremendo: l’uomo, nell’intimo del suo spirito, crede di essere superiore, crede nell’onnipotenza del suo Io. Ma d’un tratto ecco la malattia e l’Io, fino ad un momento prima ritenuto onnipotente e onnisciente, si sente d’improvviso a disagio, trova delle limitazioni al suo potere, proprio nella sua stessa casa, la mente. D’improvviso chissà da dove sorgono pensieri e l’Io non può far nulla per eliminarli: anzi questi “ospiti estranei” sono ancor più potenti degli ordini dell’Io; l’Io subisce una vera e propria invasione dall’esterno proprio dagli istinti sessuali creduti ormai vinti e domati e che ora si rivalgono col sintomo. Questo succede perché abbiamo troppo confidato sulla natura ontologica della coscienza per cui solo ciò che è cosciente è psichico ed ora ci troviamo vinti dall’inconscio: l’Io non è più padrone in casa sua, spodestato proprio dalle sue brame sessuali: ma questo l’aveva già anticipato Schopenhauer, confessa Freud.

Ma l’interesse di questo mio appunto vuole concentrarsi sul secondo colpo inferto al narcisismo umano, quello che Freud definisce il colpo biologico, il riconoscersi purtuttavia ancor animali:

Nel corso dello sviluppo della civiltà, l’uomo acquistò una posizione di predominio sulle creature compagne, del regno animale, ma, non contentandosi di tale supremazia, prese a scavare un abisso tra la sua natura e quella degli animali. Negò loro il possesso della ragione e attribuì a se stesso un’anima immortale ed avanzò delle pretese circa la propria origine divina, ciò che gli consentì di rompere il legame di comunanza tra sé e il regno animale. È abbastanza strano che tale genere di arroganza sia tutt’ora estraneo al bambino, come lo è per l’uomo primitivo e per quello primordiale. Si tratta infatti di uno stadio di sviluppo più tardo e più presuntuoso. L’uomo primitivo, a livello totemico, non prova ripugnanza a far risalire la propria origine a un antenato animale. Nei miti, in cui si condensa il precipitato di questo antico atteggiamento psichico, gli dei assumono forme animali e, nell’arte dei tempi più remoti, essi sono rappresentati con teste di animali. Un bambino non può rilevare alcuna differenza tra la propria natura e quella degli animali. Non si stupisce che gli animali delle favole pensino e parlino. Trasferirà un’emozione di paura nei confronti del padre su un cane o su un cavallo, senza che questo rappresenti per lui un’espressione di disprezzo (…) L’uomo non è un essere differente dagli animali o superiore ad essi; egli stesso discende dagli animali ed è più strettamente affine ad alcune specie e meno ad altre. I progressi che l’uomo ha compiuto non sono riusciti a cancellare le prove della sua affinità con esse, sia dal punto di vista della struttura fisica, che da quello delle disposizioni psichiche. Questo è il secondo colpo apportato al narcisismo, il colpo biologico. (Una difficoltà per la psicoanalisi, p. 625)

In questo passo Freud parla inequivocabilmente della civilizzazione e del progresso umano come manifestazione storica ed evolutiva dell’onnipotenza narcisistica primaria, come percorso politico, diremmo noi, prettamente specista volto a redimere ed emancipare l’animale umano dalle altre specie rompendo la comunanza e la convivenza interspecifica ontologicamente paritaria e originaria del bambino e del primitivo: ma, dice Freud, “i progressi che l’uomo ha compiuto non sono riusciti a cancellare le prove della sua affinità con le altre specie”: potremmo dire allora che la psicoanalisi, parlando al bambino che noi pur sempre siamo, ci tocca così personalmente e individualmente, ci indispone perché ci riporta all’illusione, all’errore e alla responsabilità morale di considerarci legittimati a sottomettere, dominare e sfruttare le altre specie di fatto a noi consimili. Non è forse perché la psicoanalisi ridà così voce al bambino che, un tempo, era a suo agio tra gli altri animali ma che ora non ne tollera più lo sguardo, il “volto” accusatore? O perché è chiamata a destrutturare sin dai nostri primi passi la nostra identità politica di specie che ci è così antipatica?

Note:

[1] Una difficoltà per la psicoanalisi

[2] Introduzione al narcisismo

[3] Totem e tabù. Alcune concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotivi.

[4] «Il caso dell’uomo dei topi.» Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva.

Destinazione… Terra!

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di Tamara Sandrin

Non posso dire con precisione quando mi sono appassionata al cinema di fantascienza, ma ricordo il folgorante entusiasmo che mi ha infiammato quando ho visto Destinazione… Terra! (It Came from Outer Space, Jack Arnold, 1953), sicuramente uno dei film più belli della fantascienza degli anni ’50, opera del migliore regista del genere nella sua epoca d’oro1.
Questo film ha costituito il punto di partenza per la mia riflessione sulla rappresentazione del rapporto dell’umano con l’alterità, che poi ha preso forma in Insetti giganti e alieni mostruosi2, perché porta sullo schermo ciò che io ho definito un paradigma della realtà e che si esplica in particolare nella battuta, lapidaria, che non mi stancherò mai di ripetere: “Noi distruggiamo ciò che non riusciamo a capire”. Destinazione… Terra! porta sullo schermo lo stereotipo dell’atteggiamento umano nei confronti dell’altro, un altro alieno e mostruoso, ma lo fa da un punto di vista critico.

Nel film troviamo tutti gli elementi tipici della science fiction americana di quegli anni: l’ambientazione nel deserto, la presenza di un triangolo amoroso tra una bella ragazza e due uomini (uno scrittore appassionato di astronomia, che in questo caso sostituisce l’onnipresente scienziato, e uno sceriffo, rappresentante del potere militare) e l’arrivo di alieni dalle dubbie intenzioni. Ma, oltre a queste analogie, presenta anche risvolti e sviluppi originali rispetto allo standard dell’epoca, sia dal punto di vista contenutistico che formale, anzi potremmo rilevare che l’originalità del contenuto venga spesso sottolineata da alcune soluzione tecniche e stilistiche.

Una navicella spaziale, quindi, precipita sulla Terra, nel deserto ai margini di una cittadina, Sand Rock. Inizialmente tutti credono si tratti di un meteorite, tranne il protagonista John Putnam, astronomo dilettante (interpretato da Richard Carlson) che ha visto l’astronave nel fondo del cratere, e la sua fidanzata Ellen (Barbara Rush). I due iniziano anche a notare fatti e fenomeni strani (rumori, vibrazioni, scie luminescenti sul terreno), cambiamenti e comportamenti inquietanti in alcuni conoscenti. Gli alieni, infatti, rapiscono le persone per assumerne le sembianze e muoversi liberamente tra il deserto e la città.

L’ambientazione nel deserto è molto importante: lo spazio esterno, nella sua rappresentazione inquietante e spaventosa, diviene materializzazione della paura umana dell’altro, dell’alieno, di ciò che è sconosciuto e incomprensibile. Il deserto, qui come in altri film, è “il regno della morte”, pur essendo estremamente vivo; pericoloso e perturbante spazio selvaggio è il luogo ideale per l’accadimento di eventi strani, soprannaturali, per arrivi e nascite mostruose. Perciò in questo luogo così ostile all’uomo si muovono invece a loro agio animali notturni e selvaggi, mostri e alieni. Questa familiarità con lo spazio del deserto è sottolineata dal regista con le frequenti riprese secondo la soggettiva degli alieni.

Anche il tema del doppio è comune e ricorre in diversi film di fantascienza a partire dal contemporaneo Gli invasori spaziali (Invaders from Mars, William Cameron Menzies, 1953) a L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) a Ho sposato un mostro venuto dallo spazio (I Married a Monster from Outer Space, Gene Fowler jr., 1958) con esiti, come accennavo, diversi.

In questo caso le cose non sono come sembrano: gli alieni sono giunti sulla Terra per sbaglio, a causa di un’avaria che stanno cercando di riparare per andarsene al più presto; non hanno intenzioni malevole di conquista e di colonizzazione, né tanto meno di distruzione. Gli alieni hanno assunto l’identità dei rapiti (che stanno tutti bene) perché sanno di non poter mostrare il loro vero aspetto, che risulterebbe orripilante per gli umani, che non sono ancora pronti a capire e ad accogliere l’altro.

Il cuore del film è costituito, a mio parere, dalla scena dell’incontro tra un alieno e John Putnam e da quella successiva del colloquio tra lui e lo sceriffo. I dialoghi costituiscono la dichiarazione esplicita dell’impossibilità dell’incontro con l’altro: mentre gli alieni sono “buoni”, hanno “anima e mente” e sono pronti a comprendere, l’incontro con l’umano non può portare che distruzione, morte e sventura perché noi, appunto, distruggiamo ciò che non possiamo comprendere, ciò che ci fa ribrezzo e paura.

In Destinazione… Terra! dunque non c’è alcun incontro con l’altro, ma nemmeno nessuno scontro, cosa che costituisce quasi un unicum nel panorama della fantascienza anni ’50 e ’60: per esempio l’uomo astrale di Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), pur avendo buone intenzioni e aspetto perfettamente umano, viene perseguitato e cacciato, gli invasori alieni bellicosi e aggressivi de La guerra dei mondi (The War of the Worlds, Byron Haskin,1952) vengono respinti altrettanto ferocemente, in Ho sposato un mostro venuto dallo spazio l’incontro, che poteva diventare amore, finisce con la morte degli alieni.

Nonostante la diffidenza e l’atteggiamento umano ostile, gli extraterrestri se ne vanno così com’erano arrivati e tutto torna alla normalità senza lasciare segni, se non la consapevolezza che c’è qualcuno là fuori, in the outer space, e che un giorno tornerà, quando “sarà tempo”, quando “saremo pronti a incontrarci da amici”.

Il film sembra quasi promettere quel che accadrà in molti film della fine degli anni ’70 e dei primi anni ’80, cioè la possibilità di entrare in contatto con alieni benevoli e innocui o di costruire un rapporto pacifico, paritario, amichevole e amicale, come in Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. (Steven Spielberg, 1982), Starman (John Carpenter, 1984), Fratello da un altro pianeta (The Brother from Another Planet, John Sayles, 1984), Il mio nemico (Enemy Mine, Wolfgang Petersen, 1985) e altri.

Note:

1 Jack Arnold ha realizzato, tra gli altri, anche gli indimenticabili Il mostro della Laguna Nera (Creature from Black Lagoon, 1954), La vendetta del mostro (Revenge of the Creature, 1955), Tarantola (Tarantula, 1955) e The Incredible Shrinking Man (1957).

2 A cui rimando per approfondimenti.

Il Panopticon condominiale e altri A.R.S

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di Rodrigo Codermatz

Il filosofo francese Louis Althusser distingueva tra Apparati Ideologici di Stato (A.I.S) e Apparati Repressivi di Stato (A.R.S) entrambe “strutture” deputate alla riproduzione di uno stato di controllo sociale, economico, politico e culturale. Tra gli apparati ideologici di stato annoverava la scuola, la famiglia, la chiesa e tutti gli organi d’informazione dai mass-media all’editoria.
Nella nostra società contemporanea, gli A.I.S svolgono un’imprescindibile azione di plagio, conformando, normalizzando, dando normative, creando categorie, etichette, confini, pregiudizi e stigma; non solo: essi agiscono sui nostri gusti e le nostre scelte amalgamandoci sia nella modalità che nel prodotto finale del sistema produttivo: e questo è il consumismo. Gli A.I.S svolgono indisturbati la loro fondamentale e subdola funzione perché indossano la maschera di coloro da cui ci aspetteremmo sicurezza e protezione, di tutte quelle strutture che, con la loro staticità, secolarità e indiscutibilità, eludono ogni forma di dialettica e critica costruttiva deresponsabilizzandoci e disimpegnandoci dal pensare, dal prendere una posizione, dal disobbedire: perché pensare, lo sappiamo bene, costa fatica mentale ma anche sociale. Il successo degli A.I.S è una società che si crede democratica e libera, libera di pensare e di esprimersi, di muoversi e di comperare, una società che crede di scegliere e, invece, obbedisce, una società di automi seriali.
Accanto agli A.I.S operano gli Apparati Repressivi di Stato (A.R.S), gli organi di polizia e di controllo diretto che devono garantire e proteggere questo processo riproduttivo della società e del modo di produzione svolto dagli stessi A.I.S contro ogni minaccia incombente: minaccia letale al sistema è tutto ciò che non rientra nella normalità, nella normatività, nelle etichette ben collaudate dello status quo, tutto ciò che si teme perché non si riesce a comprendere e capire e quindi fa paura.
Dapprima si tenta un rafforzamento degli apparati ideologici stessi come, per esempio, il concetto di famiglia tradizionale contro i movimenti lgbtqi, la posizione della chiesa e, come si constata purtroppo in alcuni testi scolastici, della scuola nei confronti degli stereotipi di genere. Quando anche questo potenziamento, condotto in parte anche con il revival di pregiudizi evidentemente anacronistici e che per questo si rifugiano spesso sotto la bandiera della “tradizione” o del “naturale” (come ad esempio il sessismo), se non altro per mero processo di evoluzione e crescita sociale nell’incontro di diversità, incontrano una resistenza e opposizione compatta come abbiamo visto negli ultimi tempi nel nostro paese (movimenti femministi e transfemministi, lotte per i diritti umani nelle carceri, per le persone lgbtqi e anche le lotte animaliste contro gli allevamenti), allora entrano in funzione gli apparati repressivi, che non sono solo manganelli e pistole ma anche taser e videosorveglianza.

Che il Covid-19 non sia caduto “a puntino” e non sia ora il “cavallo di Troia” per imporre alla nostra società una misura sì estrema di controllo e repressione in un periodo che si preannunciava veramente “caldo” per le emergenze e rivendicazioni sociali? Non ne avevamo avuto già un anticipo con il governo leghista?

In tempi di emergenza pandemica, lo stato sta veramente giocando tutte le carte del controllo non solo sociale ma anche psicologico sui cittadini e mette in campo l’intera rosa dei suoi strumenti  repressivi. Un esempio, molto eloquente e di una pericolosità estrema ci viene da diversi comuni (per esempio il comune di Ravenna) che danno in dotazione un piccolo dispositivo di videosorveglianza, una body camera, da applicare alla divisa dei suoi funzionari di polizia: un vero fiore all’occhiello, se vogliamo farne una triste battuta di spirito. Inquietanti le motivazioni che si leggono nell’articolo:

La funzione principale è quella di riprendere gli interventi classificabili come “complessi” o “ad alto impatto”, registrando in modo particolare ciò che l’operatore stesso vede e sente durante le fasi concitate dell’intervento. Le registrazioni verranno effettuate ogni qual volta gli operatori riscontreranno che vi siano i presupposti in grado di legittimare l’utilizzo delle body camera, ritenendo che potrebbero ragionevolmente produrre un considerevole effetto deterrente alla commissione di atti illeciti, con indubbi riflessi positivi sulle condizioni di sicurezza dei cittadini e degli stessi agenti rispetto ai rischi specifici correlati alle attività svolte.

A parte il dichiarato intento punitivo (cosa si intende precisamente?), lo strumento dovrebbe avere la funzione di riprendere non ciò che accade ma ciò che il funzionario classifica come un comportamento “complesso” o “ad alto impatto” tanto da giustificare l’uso della body camera in una non meglio precisata “fase concitata dell’intervento” i cui prodromi e gli antecedenti, in poche parole il generarsi e l’evolversi della situazione, non raggiunto ancora il grado di complessità e di alto impatto definiti, rimarrebbero “invisibili”: in sostanza un atto di vero e proprio montaggio filmico che porterebbe ad una facile manipolazione del referto visivo e quindi ad un uso pregiudizievole e forse a verdetti legali e misure punitive o dissuasive non così scientifiche, obiettive, leali e reali. Il piccolo regista D.I.Y taglia l’intero film e ci presenta solo l’imputato sulla sedia elettrica.
Si parla è vero di un addestramento dei novelli film makers: ma, a parte il già citato intento tristemente classificatorio, tale addestramento riuscirà mai a dare a un vigile urbano la competenza, sensibilità, acutezza, l’empatia, le conoscenze e la comprensione per valutare dei comportamenti “complessi” o “ad alto impatto” di un’altra persona in una situazione di estremo stress e paura mai vissuta prima, qual è una pandemia, oppure molto ansiosa o con qualche disturbo di personalità (paranoide, per fare un esempio limite)? In sostanza si richiede ad un vigile urbano una preparazione, una conoscenza, una lucidità una capacità di distinguere e categorizzare comportamenti ed emozioni che si possono richiedere a psicologi molto preparati; non solo: anche un livello di comprensione e di empatia, a mio avviso, incompatibili con la situazione di dichiarata subordinazione che una divisa rappresenta. Non è più facile immaginare che la body camera, accesa al momento giusto il cui “ciak si gira” è in mano al regista-psicologo D.I.Y, fornirà invece l’alibi alla risposta violenta del funzionario ad un comportamento esasperato nato forse da atteggiamenti per niente empatici e magari provocatori (non sarebbe la prima volta) dello stesso funzionario?
C’è un altro aspetto inquietante: quando si parla di classificare si fa riferimento anche al fatto che c’è qualcuno che osserva, descrive, seziona e mette un’etichetta su un’altra persona, in una parola, ci si riferisce ad un esperimento. Il funzionario di polizia è di nuovo in grado di giudicare obiettivamente una persona, che probabilmente non ha mai visto, dagli effetti sul suo comportamento della paura e dello stress di una situazione a cui non eravamo mai stati esposti prima, una situazione di “pericolo di morte”?
La body camera è un esperimento di vera e propria psicologia comportamentale messo in mano a funzionari dell’ordine in una situazione sociale di eccezionale disagio emotivo con intento punitivo: e qui l’abbiamo detta tutta.

Il Covid-19 inoltre ha messo in moto un altro grande mezzo di controllo sociale, il Panopticon per eccelenza, dove non servono più nemmeno gli organi di polizia e quelli repressivi e che Althusser definì il “poliziotto sempre al nostro culo”: l’altra persona, il mio vicino, la persona che quotidianamente mi osserva ed è sempre pronta a giudicare e condannare; vergognosamente, ed è cronaca di questi giorni, ognuno tiene d’occhio e giudica cosa fa l’altro, quando esce e perché esce da casa, in quanti escono nella stessa auto etc. Oltre che a creare tensioni sociali che vanno senz’altro ad aggravare una situazione emotiva e di stress che deve ancora esplodere, svolge un eccellente servizio di autocontrollo e oppressione sociale così ben capillare, a livello microsociale, da entrarci in casa quale nessun organo militare e poliziesco riesce a fare.

Survivors

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di Tamara Sandrin

Ovvio e scontato, oggi, parlare di Survivors1 (serie inglese degli anni ’70 creata da Terry Nation), ma vorrei proporre delle riflessioni, amare, che la serie ha da sempre suscitato in me e che ora sento vive e pressanti, oltreché attuali.

La storia è nota: la diffusione di un virus (una sorta di peste polmonare) partito dalla Cina porta all’estinzione di oltre il 99% della popolazione mondiale2, causando quindi l’estinzione della civiltà, quale la conosciamo, in quasi tutti i suoi aspetti: economici, sociali e morali.

La serie, in particolare le prime due stagioni, è realizzata con acume, intelligenza e accuratezza e analizza, dai punti di vista dei diversi personaggi, le varie difficoltà di sopravvivere in un mondo che si rivela totalmente estraneo e totalmente ostile; mette in luce l’impossibilità di ricostruire la propria vita, fin dai più semplici e basilari atti quotidiani, e di ricostituire una società che si possa considerare, se non solidale, quantomeno civile.

Survivors, in particolare, mette in scena la diffidenza, il timore, la sfiducia, nei confronti dell’altro.

Le tematiche che la serie affronta, dunque, sono principalmente la paura e la fame, gli incontri e gli scontri con le altre persone, il senso di necessità di riconquistare la propria autosufficienza, reimparando a fare ogni cosa, il desiderio umano di unirsi e stare insieme, di formare delle comunità. Gran parte della serie, infatti, è dedicata proprio ai tentativi di creare delle comunità autonome e quanto più possibile efficienti.

L’economia di sopravvivenza delle varie comunità si basa quasi esclusivamente sul modello agricolo (agricoltura di sussistenza con aspirazione a divenire, col tempo, intensiva) e di sfruttamento animale, Survivors non ci risparmia nulla del suo aberrante catalogo: caccia (con fucile, arco e frecce, balestra, trappole, ecc.), allevamento (polli, ovini, bovini, maiali), macellazione e trasformazione delle carcasse, uso dei cavalli per il lavoro e come mezzi di trasporto, uccisione dei cani rinselvatichiti, ecc.

L’umanità che ci mostra Survivors è fatta di egoismi e ferocia, le sue comunità sono spesso di stampo paramilitare, nazista e persino condotte secondo i principi dell’eugenetica, nel migliore dei casi fondate sulla divisione del lavoro in base alle vecchie classi sociali3: chi nel “vecchio mondo” aveva avuto ruoli direttivi, dirigenziali, o svolto lavori intellettuali, o semplicemente fatto parte dell’upper class, continuerà ad avere più o meno le stesse prerogative e a ricoprire i ruoli di leader delle comunità; chi al contrario proveniva dalla classe operaia, dal proletariato, sarà sempre subalterno.

E le tensioni, legittime, verranno risolte sempre, o quasi, con dimostrazioni di forza, soperchierie o minacce (di allontanamenti, esclusioni, abbandoni e finanche di violenza fisica e morte). Non solo, con estremo raccapriccio, scopriamo che in alcune zone della campagna inglese e nell’ancor popolosa e popolata Scozia vige l’autorità del Lord, signore feudale che riporta in auge anche l’aristocrazia terriera.

Insomma nel nuovo mondo dei sopravvissuti permangono le peggiori caratteristiche di questo mondo, la forza al servizio del capitalismo: perché il fine ultimo delle “migliori” comunità è il ripristino dell’economia capitalista che non guarda alle aspirazioni degli individui ma alla loro funzionalità all’interno del sistema. Ricostruire le infrastrutture (ferrovie, porti, linee elettriche e telefoniche, ecc.), far ripartire gli scambi commerciali e i contatti tra persone e comunità con l’emissione e la diffusione della moneta per giungere, attraverso una fase federativa, all’unità nazionale sotto l’egida di un re.

Un re incoronato già morto, fasullo come la moneta con la sua effige, che regnerà su un popolo di zombie risorti dalle ceneri del capitalismo.

 

Note:

1 Terry Nation, Survivors (I sopravvissuti), Gran Bretagna 1975-1977, BBC.

2 Si parla di qualche migliaio di sopravvissuti in Inghilterra, di cui cinquecento nella sola Londra e di dodici persone al Cairo. Pochissimi sopravvissuti in Norvegia con poco cibo e molte fabbriche funzionanti. Curiosamente in Scozia, invece, sembrano essere sopravvissuti/e quasi centocinquantamila scozzesi… probabilmente grazie al massiccio consumo di whiskey!

3 In questo funereo quadro spiccano almeno tre comunità alquanto diverse: una comunità vegetariana e pacifica retta da una ragazza indù e da un anziano “illuminato”, una costituita solo da bambini e una comunità di minatori installata in un country club, dedita a giocare a biliardo e bere birra, finché i suoi membri non vengono convinti a riavviare la miniera.

Occhi liquidi

di Tamara Sandrin

 

Nella bruma immobile
aria bagnata,
il fetore è insopportabile
e il frastuono dei colpi
lancinante.


– Perché state alla pioggia
immobili e tesi?

Sono sette.
Occhi liquidi
gambe veloci.
Sento forte la paura
delle loro ossa
nelle mie ossa.


– Vorrei essere vostro scudo
e vostra lancia.
– Vorrei essere corpo vostro
per toccare,
sorella,
i vostri corpi.

Occhi liquidi
corpi sinuosi,
come, come?
Come si può?

– La vostra sola esistenza
nuda e vitale
è sconvolgente.

 

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