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Il cuore muto di Renée George

26 mercoledì Ott 2016

Posted by Tamara Sandrin in Entr'acte

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Tag

7shortfilmsaboutlove, cinema muto, Renée George, The artist

dsc_5914

Un’intervista esclusiva alla regista statunitense

Renée George è una regista e compositrice statunitense: nativa del Winsconsin, ha studiato fotografia e cinematografia conseguendo il BFA (Bachelor of Fine Arts) in Media Arts al Minneapolis College of Art and Design. Dopo il Graduate Film Program presso l’University’s Tisch School of the Arts di New York, approda giovanissima ad Hollywood come tecnico delle luci e, dopo venti anni di esperienza, nel 2011 è sul set di The artist, film muto in bianco e nero scritto e diretto da Michel Hazanavicius vincitore di ben cinque Oscar, tre Golden Globe, sette BAFTA e sei César.

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È sul set di The Artist che, come lei stessa racconta nella nostra intervista, nasce il suo amore per il cinema muto e la sua convinzione che questo possa di fatto essere il linguaggio universale che, trascendendo le diverse lingue e nazionalità, i confini geografici e culturali, le fedi politiche e religiose, sia in grado di unire l’intero pianeta nella collaborazione e cooperazione per il miglioramento.
Convinzione che Renée tenta di esplicare in un suo progetto concernente sette cortometraggi muti girati in sette paesi diversi narranti sette piccole storie d’amore (7shortfilmsaboutlove).
I primi due, Le Petit Nuage girato a Parigi e Lago di seta girato in Italia sul lago di Como, sono stati presentati come eventi speciali nella rassegna“Muti del XXI secolo” alle Giornate del cinema muto di Pordenone rispettivamente nel 2012 e nel 2013.
Gli altri cinque shortfilms about love sono Like A Sakura (Giappone), Любовь в тумане (Love In The Fog) (Russia), A part of it (USA), حب و طبخ (Love And Cooking) (Marocco) e l’ultimo da girare in Argentina o a Cuba.
Attualmente Renée vive a Los Angeles: oltre alla sua attività registica, compone anche le colonne sonore dei suoi cortometraggi; è appassionata di ortocultura e floricultura e segue uno stile di vita decrescente basato il più possibile sull’autoproduzione.

Tamara ed io abbiamo conosciuto Renée alle Giornate del cinema muto di Pordenone dove, come dicevo sopra, negli anni scorsi sono stati proiettati due dei suoi 7shortfilms about love; la sua simpatia e dolcezza è divenuta in breve amicizia e le Giornate sono ora anche occasione di rivederci di anno in anno.

ottobre-2016-renee-george-a-cavegan-070

Quest’anno, prima del suo rientro negli Stati Uniti, abbiamo avuto il piacere di ospitarla a casa nostra, CaVegan, e di passare due piacevoli giornate assieme.
Degustando dei piatti friulani riletti in chiave vegana tra i quali il famoso e famigerato frico vegan di Tamara abbiamo conversato piacevolmente di cinema, alberi, piante e animalismo e le abbiamo rivolto qualche domanda per il nostro blog.

 

Ciao Renée, grazie di averci concesso questa intervista: è un piacere averti nostra ospite qui a CaVegan.
Quando è nato il tuo interesse per il cinema muto?
Il mio interesse per il cinema muto è iniziato lavorando al film The Artist un film muto che ha anche vinto l’Oscar ed è stato anche molto amato dal pubblico.
Lavoravo già da venti anni a Hollywood come tecnico delle luci: quando arrivai a Hollywood, il mio primo desiderio era, in verità, quello di divenire regista ma ero molto giovane con pochi soldi e sapevo che dovevo lavorare molto e fare molta gavetta per capire l’industria cinematografica, per riuscire a comprenderla al meglio e riuscire a fare quello che ora faccio.
Dopo vent’anni di lavoro all’interno dell’industria cinematografica ho pian piano capito che diventare regista forse non era più la mia meta: non mi hanno mai interessato i film di supereroi o cose del genere.

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The Artist mi ha dato una nuova speranza: una troupe francese era venuta a Los Angeles per girare un film muto su una storia d’amore ambientata negli anni Venti a Hollywood nel momento di passaggio tra il cinema muto e quello sonoro; ho pensato allora – se dei francesi sono venuti a Los Angeles e hanno fatto questo film meraviglioso perché non andare io a Parigi a girare un mio film in risposta al loro ?- Così ho provato e questo ha fatto nascere l’amore per il film muto ed ho capito in quel momento perché The Artist è stato così amato dal pubblico e ha vinto l’Oscar. Ho capito che c’era qualcosa che mancava nella cultura popolare e che la gente può amare comunque qualcosa di, in un certo senso, antico come il cinema muto, e può tornare ad esso e amarlo di nuovo. Questo mi ha dato la speranza che ci fosse anche per me la possibilità di fare qualcosa dopo che avevo perso la passione per i film a causa della tendenza molto commerciale di Hollywood; vedere il successo di The Artist ha rinvigorito il mio amore per il cinema in generale e anche per il film muto in quanto genere, perché per me il film muto è tutt’altro dal cinema moderno che è un’esperienza passiva dove ti siedi, guardi, subisci suoni ed effetti e non pensi a niente. Il cinema muto è diverso: ti apre una parte del cervello, la parte creativa rimasta assopita; devi stare attento, devi capire cosa sta succedendo nel film e questo ti coinvolge, ti rapisce e risveglia la tua creatività. Inoltre il cinema muto non è circoscritto o limitato dal linguaggio o da confini ma è semplicemente universale: tutte queste cose le ho capite grazie a The Artist e per questo è stata un’esperienza meravigliosa.

In una società impaziente, disattenta, avida, frenetica e superficiale come la nostra, il cinema muto può ancora avere una sua forza come mezzo espressivo e informativo?

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Assolutamente. Il film muto è molto importante perché elimina i confini che ci siamo posti tra di noi: confini di cultura, di linguaggio; tutto ciò sparisce nel cinema muto che è un media globale e questo è molto importante soprattutto oggi perché siamo sull’orlo della fine della società in generale per vari motivi come il cambiamento climatico, le guerre e tutto il resto. La cosa più importante per noi ora è riunirsi, non separarci e io credo che il film muto possa farlo perché in esso non ci sono lingue, non c’è niente che possa dividerci. Il film muto può riunirci ed è per questo che io amo la maggior parte dei film muti.

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Le sbarre della metafora

18 martedì Ott 2016

Posted by Tamara Sandrin in il gabinetto del dottor Codermatz

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Tag

animali, Animalisti FVG, gabbia, Gilles Deleuze, Ignacio Matte Blanco, Jacques Lacan, Jorge Luis Borges, metafora, metonimia, Nosagraosei.org, Paul Ricoeur, Rodrigo Codermatz, sbarre

portrait_of_keats_listening_to_a_nightingale_on_hampstead_heath
di Rodrigo Codermatz

Articolo già pubblicato in Volare!, a cura di Animalisti FVG, Pordenone 2016 e sul sito NoSagraOsei.

Una colomba avevo, dolce, che morì,
Morì, ne son convinto, di dolore,
Ma perché soffrisse non lo so. I piedi
Avea legati, i piedi suoi dolci, piccoli, rossi,
Ma con seta intessuta di mia mano.
Perché morire, perché lasciarmi qui a chiamarti invano?
Vivevi sola, sull’albero nella foresta,
Non avresti potuto con me vivere a festa?
Spesso ti baciavo e ti davo bianchi baccelli,
Perché non vivere dolcemente, come tra i verdi arbuscelli?
1

La gabbia, cielo interrotto tra due sbarre di ferro è l’ultima metamorfosi paradossale del nostro colloquio coll’animale, quando aiutati da poeti e romanzieri, pittori e scultori, incitati da filosofi e mistici abbiamo posto ciascuno la nostra sbarra sovraccaricando l’animale delle nostre paure, angosce, dei nostri sogni e desideri, della nostra rabbia, della nostra gravità: gli abbiamo tolte le piume, il pelo, i colori e la pelle e l’abbiamo rivestito di metafore, sineddoche, catacresi, allegorie, di letteratura che ha fatto dell’usignolo, uccello “di tutti il più musicale e malinconico”!2
E non dovremmo allora dire con Samuel Taylor Coleridge –Malinconico? Vano pensiero! Nulla v’è di malinconico nella natura!– e stendere, come egli consiglia, le nostre membra sulle sponde di un ruscello e, come il suo tenero figlioletto che incapace di suoni articolati storpia le parole col suo balbettio imitativo, porre la mano accanto all’orecchio e, coll’indice puntato, imporci d’ascoltare?3

Udivo una miriade di suoni confusi,
mentre me ne stavo sdraiato in un boschetto…
Gli uccelli a me d’intorno saltellavano per gioco,
E pur non sapendo leggere nei loro pensieri,
Il loro minimo sussulto
Mi sembrava un guizzo di piacere
4

Invece noi lo carichiamo delle nostre sventure chiudendolo tra pareti che noi ci portiamo dentro, ne facciamo il nostro confessore, il nostro medico, la spalla dell’amico sulla quale piangere un desiderio insoddisfatto, un sogno infranto, una giovinezza andata, un amore perso, sulla quale sfogare la nostra rabbia quando, come Keats, gridiamo all’usignolo

…troppo felice nella tua felicità
………………………………………………
Ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:
La stanchezza, la malattia, l’ansia
Degli uomini, qui, che si sentono soffrire,
Qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi,
Dove la gioventù impallidisce, si consuma e simile a un fantasma muore,
Dove il pensare stesso è riempirsi di dolore,
E la disperazione regna, dalle ciglia di piombo,
Dove la bellezza vede spenta la luce dei suoi occhi
E l’amore nuovo non riesce a piangerla oltre il domani
……………………………………………….
Non sei mica nato per morire, tu, uccello immortale!
……………………………………………….
Spegnersi a mezzanotte, senza dolore,
Mentre tu butti fuori l’anima
In un’estasi stupenda!
5

dove quel “troppo felice nella tua felicità” confessa l’invidia generata dal sentimento di essere deprivato da una natura che nella sua abbondanza si risparmia e si ritrae.
All’animale noi chiediamo di fornirci un’immagine di noi stessi, un costume per la nostra grande mascherata sociale e lo chiamiamo hobby, divertimento, sport, tradizione, folklore, cultura e, contradictio in terminis, persino natura: e lo peschiamo, lo cacciamo, lo montiamo, lo mangiamo, lo indossiamo, lo esibiamo, lo umiliamo in circhi, zoo e acquari. Lo immobilizziamo in proverbi, detti, metafore, ne decantiamo le qualità e capacità fisiche, il colore, il canto, la vista, l’olfatto, l’astuzia, la forza, la velocità, gli abbiamo rubato i muscoli, le zampe, l’impetuoso avido contatto delle ali, quei “voli diversi, separati, Lei il suo, lui il suo seguendo” decantati da Whitman6 e abbattuti per sempre in simboli e marchi, nelle etichette e sui cofani, sulle vetrine e panelli pubblicitari, nei nostri sogni di cadere o volare, nei nostri oggetti interni persecutori.
Ali che l’uomo ha fatto cadere dal Paradiso e alle quali ha fatto disimparare il linguaggio stesso del cielo addossandole a Satana

che più non sa parlare il linguaggio dei cieli;
e in ogni sua parola c’è la morte;
e brucia ciò che vede, ciò che tocca corrompe
7

che tenta di riconquistare il Paradiso perduto entrando nel serpente che dorme sotto forma aerea di nebbia.8 Spingendosi ancora oltre, l’uomo ha scisso anche se stesso e, mettendo le ali a quella parte di sé che vuole investire di immortalità, onnipotenza, ubiquità e onniscienza, ha inventato il suo alter-Ego volatile: l’angelo custode.
Animali che per secoli pittori, musici, poeti e romanzieri hanno cantato per intenerirci il cuore, per metterci a nostro agio e parlarci poi di tresche amorose, duelli d’onore, dipartite di amanti, soldati, eserciti e cavalieri, di mondi campestri e rurali, di tristi periferie e quartieri proletari neorealisti dove quasi ci convinciamo che il canarino in gabbia sul balcone al sole ci dia il buongiorno, ci parli della primavera, dei fiori, dell’amore e fa coro con il chiasso dei monelli in strada e lo stornello che la grossa mamma canticchia buttando giù dal letto una squadra di pigri e assonnati marmocchi.
Animali ridotti ormai a fantasmi, a ombre cinesi, a svelte silhouette di lanterna magica che noi proiettiamo attorno a noi scambiandoli per realtà: metafore, metafore e ancora metafore; metafore del bene e del male, del bello e del brutto, del leggero e del pesante, del veloce e del lento, della gioia e della paura (povera upupa foscoliana!): un giorno verrà scritta, dice Jorge Luis Borges, la storia della metafora e sapremo la verità e l’errore che queste congetture racchiudono.9
Al collo, allora, al posto della croce non porteremo un albatro morto ma le nostre metafore.10
Così l’animale ancor prima di entrare in gabbia ha perso “carne e ossa” e le sbarre non sono che l’ultima porta che noi chiudiamo tra noi e lui: ancora una volta il mondo diventa vortice ottico dell’occhio umano, accentramento delle cose attorno all’occhio che le guarda, forza centripeta che porta le cose, gli altri esseri e la libertà stessa della natura, addosso all’uomo che perlustra.
Ѐ da tale avvicinamento che ebbe origine la gabbia: nata per avvicinare e rendere visibile ciò che originariamente era lontano (le prime gabbie furono quelle che imprigionarono animali esotici, uomini, donne, piante per esser portate nel mondo civile ed essere esposte come mirabilia, fenomeni strabilianti, meraviglie alle fiere, agli zoo, nei musei) diviene specchio e metafora della nostra quotidianità, del carattere avido del nostro “aver tutto sott’occhio”.
Cieca arroganza antropocentrica che gode nel riportare a terra, ridimensionare, depredare una libertà che nausea e dà il capogiro perché parla di tempi e spazi infiniti e infinitesimali ma soprattutto indifferenti e indipendenti dall’uomo, dalla sua storia, dalla sua civiltà: acuminato spillo asettico che trafigge la farfalla e la fissa alla bidimensionalità di un nome, di una targa, ammaliante lampione che richiama e brucia le falene. Mano che non tollera e schiaccia la libertà assoluta degli insetti relegata nell’assoluta alterità, nell’incontrovertibile specismo, privata di ogni minima considerazione etico-morale perché piccola e veloce, ingestibile, imprevedibile, incontrollabile, perché onnipresente, perché il loro volo è imperscrutabile e impossibile da trattenere se non con la distruzione totale dello spazio, dell’aria, col ddt.
Perduta la capacità di ogni possibile rapportarsi con l’animale in “carne e ossa” la metafora cresce su se stessa e diviene non uno ma IL nostro modo di relazionarci con l’altro, di interferire con esso per depredarlo: è relazione oggettuale che s’appropria e interiorizza l’altro, lo fa recitare nel proprio teatrino e poi lo rimette al mondo come verità. Scrive Nietzsche:

Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti; le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si son logorate e che hanno perduto ogni forma sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.11 Continua a leggere →

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