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Fine agosto all’Hotel Ozon

08 venerdì Giu 2018

Posted by Tamara Sandrin in Entr'acte

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Tag

cinema cecoslovacco, cinema di fantascienza, cinema post-apocalittico, Fine agosto all'hotel Ozon, Jan Schmidt, Karlovy Vary, Konec sprna v hotelu Ozòn, patriarcato, Tamara Sandrin, violenza, violenza femminile

Un manifesto (involontario) contro il patriarcato

di Tamara Sandrin

Un angar, un campo di frumento, un libro aperto, una chiesa, un ciuffo di spighe tra le pietre. Su queste immagini diverse voci in diverse lingue scandiscono il conto alla rovescia.
Poi le voci si sovrappongono divenendo un coro polifonico e indistinto, che sfuma per chiudersi sull’impronta di un piede umano che scompare.

Nella scena successiva un grande albero viene abbattuto e sul suo ceppo una mano femminile non più giovane indica lo scorrere del tempo, dieci, venti, trent’anni, quaranta, quarantotto, cinquant’anni, “all’incirca qui sono nata”, “qui è accaduto”, “qui c’erano ancora persone, animali, alberi”, “qui sei nata tu”, “qui non c’era più niente, persone, animali, alberi”…

Inizia così il film cecoslovacco Fine agosto all’Hotel Ozon1, considerato il capostipite del genere post-apocalittico: è un film forte, crudo, di una ricchezza espressiva notevolissima, con una fotografia poetica e suggestiva – che ricorda in alcuni momenti il cinema muto scandinavo – grazie agli splendidi paesaggi, alla recitazione naturalissima e controllata delle giovani attrici e a un bianco e nero caldo e ricco di sfumature. La pellicola trattiene con forza lo spettatore, non gli dà tregua, non c’è un momento di noia, nonostante la semplicità della trama e i dialoghi scarni.
In un luogo e in un tempo imprecisati, in un mondo post-apocalittico tornato a uno stato selvatico, un piccolo gruppo di giovani donne (poco più che adolescenti) e una donna più anziana – che solo verso la fine del film scopriremo chiamarsi Dagmar Hubertova – si muovono attraverso i boschi, si arrampicano su sentieri scoscesi, vagano alla ricerca di qualcosa e di qualcuno, di gente, persone, esplorano vecchi rifugi militari, villaggi abbandonati, città diroccate.
Le giovani sono coraggiose, selvagge e spietate, non mostrano nessun carattere che possa essere ricondotto allo stereotipo della femminilità, sono fredde e anaffettive ma tra loro è evidente una forte solidarietà di gruppo (anche quando litigano e si picchiano) e hanno grande fiducia e rispetto per la donna più anziana.
Il gruppo è completamente autonomo e autosufficiente, ognuna di loro è in grado di affrontare le difficoltà e di svolgere qualsiasi tipo di lavoro e di sforzo fisico. Non hanno bisogno di nessuno, se non di uomini con cui riprodursi e rifondare la civiltà umana, almeno questo è ciò che crede Dagmar ed è perciò che le conduce in una ricerca incessante. Il suo proposito si rivelerà fallimentare perché le giovani donne, nate tutte dopo il disastro, non hanno mai visto un uomo (l’ultimo ragazzo del gruppo è morto sbranato dai cani molti anni prima), non sanno cos’è l’amore, né “l’istinto materno”, né il sesso, non sembrano avere una sessualità definita: rappresentano qualcosa di nuovo che non corrisponde assolutamente agli stereotipi del vecchio mondo pre-atomico. Anche l’anziana si è necessariamente indurita, ma i suoi gesti e le sue parole rivelano ancora emozioni e affettività, come quando, giunte nei pressi di una città abbandonata, Dagmar scopre dei semplici segni di gesso (linee, croci, cerchi, ecc.) sui muri degli edifici e comincia a seguirli sempre più eccitata, perché li interpreta come tracce lasciate volontariamente da qualcun altro. La sua delusione è cocente e palpabile quando scopre che l’autrice di quei tratti è soltanto Eva, una delle sue ragazze.
 Tutta la sua ricerca concitata è accompagnata dalla voce di un’altra ragazza che legge con un tono totalmente piatto e inespressivo una lettera d’amore.
Il film mostra in modo particolarmente esplicito il carattere rude delle giovani in alcune sequenze che assumono un notevole valore simbolico, in particolare quelle dell’uccisione di un serpente, di un cane e di una mucca: scene veramente scioccanti per il realismo e la brutalità2, per il sangue freddo delle protagoniste e per la crudeltà e l’efferatezza degli assassinii. Scene che, come vedremo, si legano a doppio filo con il finale del film.
A un certo punto durante le loro peregrinazioni – che ormai sono un vagare a vuoto perché Dagmar non riconosce più i posti, non sa più dove siano arrivate, cosa che non disturba molto le giovani a cui non interessa dove stanno andando in quanto seguono solo la volontà dell’anziana, senza comprendere a fondo il suo fine – si imbattono in una mucca: Theresa imbraccia il fucile, prende la mira da lontano e le spara uccidendola sul colpo.
 Sotto lo sguardo benevolo e soddisfatto dell’anziana, tutte le ragazze si accaniscono sulla povera mucca tagliandole la gola e colpendola ripetutamente con calci e pugni per dissanguarla, poi iniziano a sventrarla con piccoli coltelli e con le mani nude. La scena è difficilmente sopportabile tanta è la ferocia mista a entusiasmo delle donne.
L’espressione allegra di Dagmar diviene raggiante allorché nota una cavezza attorno al collo della mucca, segno inequivocabile che era “di proprietà” di qualcuno: finalmente hanno raggiunto il loro scopo!
 Dopo qualche istante sopraggiunge correndo un anziano che spaventa le ragazze, che non hanno mai veduto un uomo, tanto che una di loro gli spara più volte senza colpirlo. Da parte sua, invece, l’uomo si dimostra commosso alla vista delle donne ed esclama “Oh, bambini!”. È ben comprensibile che anche lui, come Dagmar, riponga nelle giovani la speranza di una nuova generazione.
L’incontro con l’anziano e l’arrivo del gruppo di donne all’Hotel Ozon, dove vive il vecchio, fa ripiombare lo spettatore in una dimensione “museale”: la casa dell’uomo è piena di ricordi e di cimeli di un’epoca finita, compiuta. Lui stesso rimane l’unico testimone di una società ormai morta, di usi perduti, di un’etichetta desueta e inutile.3 L’uomo è quantomai dolce, delicato e sollecito nei confronti delle donne verso le quali non rivolge mai alcuno sguardo di concupiscenza; ultimo rappresentante di una galanteria patriarcale, chiama Dagmar “signora Hubertova”, mentre le ragazze la chiamavano semplicemente “anziana”. Dagmar è deliziata da tanta gentilezza, dalla varietà e dall’abbondanza di cibo e di comfort del vecchio mondo: latte, caffè, cannella e vecchie usanze, gentilezze e formalità.4 Ma lui è solo e, nonostante la delicata commozione risvegliata in lei dalle sue maniere, quando l’anziana lo scopre si lascia sopraffare dalla disillusione, dalla disperazione.
Le ragazze sono curiose, gironzolano per l’hotel, esplorano, toccano, rompono, mentre Otakar Herold spiega loro il gioco degli scacchi, racconta di Napoli e dell’Italia, parla di televisione e giornali. Cerca anche di scherzare, ma resta indecifrabile per le giovani donne. Loro hanno un’idea diversa del divertimento: i loro giochi e i loro scherzi sono violenti e scatenati – fare una corsa all’inseguimento di un cavallo per saltargli in groppa al volo, accendere un fuoco con la benzina e gettarvi in mezzo dei proiettili per farli esplodere, mettendo così a rischio anche la loro stessa vita, ammazzare gli animali e azzuffarsi tra loro.

Il punto culminante della contrapposizione e della rottura tra vecchio e nuovo mondo è rappresentato nella sequenza della cena a lume di candela: la tavola è apparecchiata in modo elegante, con piatti, bicchieri e posate, tovaglia e tovaglioli, candelabri. Herold, in giacca e cravatta, è fin troppo gentile: versa il vino e brinda alle “madri del nuovo mondo” mentre le giovani non prestano alcun interesse per le sue attenzioni. Agli occhi dello spettatore sembrano completamente fuori posto in un ambiente così “raffinato”, abituate come sono a mangiare con le mani o direttamente da barattoli arrugginiti che, una volta svuotati e inutili, abbandonano nell’ambiente seminando solo rifiuti e morte al loro passaggio.5 
Solo la vista e l’ascolto di un grammofono sembra scuoterle dalla loro freddezza e dalla loro apatia: Herold, allegro, suona per loro un disco e mentre ascoltano rapite la vecchia canzone
Rosamunda, Dagmar – loro guida e madre putativa – muore. Per la seconda volta nel film le immagini e il sonoro ci mostrano che eventi e sentimenti sono in contrasto, che le giovani donne non hanno ereditato o imparato la stessa struttura emotiva della vecchia generazione.
La sepoltura dell’anziana ci è mostrata dal regista solo attraverso le inquadrature delle mani delle ragazze e dell’anziano, che ha scavato la fossa, e infine della tomba con una croce di legno. Vedere i volti inespressivi, senza lacrime, sarebbe stato superfluo e meno eloquente: le giovani sono donne pratiche, abituate alla fatica, al lavoro, ai colpi della vita e del destino, le loro azioni contano più dei loro sentimenti.
Ora che Dagmar è morta vogliono rimettersi in cammino per compiere la volontà dell’anziana, cercare persone, anche se non comprendono esattamente ciò che significa e i risvolti emotivi e concreti implicati in questa ricerca. Niente le lega all’hotel Ozon, ma Herold prova trattenerle, non vuole rimanere solo, prima cerca di impaurirle con la minaccia dell’approssimarsi dell’inverno e di blandirle con la lusinga dell’abbondanza di cibo, latte, burro, uova e miele, poi riesuma la strategia patriarcale dell’infantilizzazione dell’altro, le chiama “bambine”, dice loro che non c’è più nessuno al mondo e tenta di imporre la sua volontà.
Infine l’uomo opera l’ultima delle abiezioni patriarcali del vecchio mondo: dato che le “bambine” non obbediscono alla sua volontà e non si adeguano passivamente ai suoi canoni ormai sorpassati, ne opera l’animalizzazione:

– Siete come animali.

e ancora

– Siete delle bestie. Non avete sentimenti.

Il gruppo, però, è compatto e deciso ad andarsene. E non solo: le ragazze vogliono avere a tutti i costi il grammofono, anche se sanno che lui non lo cederà facilmente. Per averlo non esistano a freddare il vecchio con un colpo di fucile. Soddisfatte per il bottino, partono a piedi con i cavalli carichi delle loro cose. L’inquadratura finale vede la carovana sulla cresta di una collina, proprio come nei film western americani.6

Con l’abbandono dell’Hotel Ozon si decreta la fine e l’oblio di una cultura ormai inutile, con l’uccisione dell’uomo si compie quindi la distruzione definitiva della società patriarcale che era già stata preannunciata in precedenti sequenze del film: alla luce di questa azione finale possiamo quindi vedere le uccisioni degli animali come simboli dell’annientamento di alcune caratteristiche peculiari della nostra società androcentrica, patriarcale e bigotta.

Quando Magdalen uccide il serpente schiacciandolo sotto il calcagno (come Maria) rifiuta il peso della colpa, del peccato originale e la conseguente condanna a “partorire con dolore”. Il rifiuto della religione è ribadito anche nella sequenza in cui Eva rischia di morire in una cattedrale diroccata in cui le donne entrano a cavallo.
Nel cane semi-selvatico, che per un po’ segue il gruppo dimostrando curiosità e quasi fiducia ma non sicuramente aggressività, possiamo vedere il simbolo della dipendenza e della fedeltà, che vengono liquidate dal fucile di Theresa.
Sulla Terra ci sono pochi animali, Dagmar stessa all’inizio dice che erano scomparsi quasi tutti, quindi la scelta di determinate specie animali, non può essere casuale.
La mucca diviene quindi il simbolo della ri-produttività femminile, la sua morte è la metafora della morte della maternità e dell’istinto materno: le giovani donne non diverranno mai madri, ce lo confermano le uccisioni di Otakar Herold e, appunto, della mucca e ci era stato anticipato dalla scena in cui Dagmar strappa dalle mani di Judith e Barbara una vecchia bambola di pezza rompendola senza volere.
Le morti della donna anziana, del vecchio e della mucca, dunque, rappresentano il concretizzarsi del rifiuto della ri-creazione ripetitiva di una società e di un’umanità che si sono rivelate fallimentari.7

 

Note:

1 Jan Schmidt, Konec sprna v hotelu Ozòn, Cecoslovacchia 1966. Il film, finanziato dall’esercito di cui faceva parte lo stesso regista, venne girato nell’estate del 1966 nei dintorni di Karlovy Vary (dove nel novembre dello stesso anno doveva svolgersi un simposio sull’imperialismo tedesco) in un momento molto delicato per le forze armate del paese sempre all’erta sul fronte tedesco e in una situazione che stava divenendo tesa anche con la Russia, visto il rifiuto di accogliere sul territorio nazionale truppe sovietiche armate di missili.

2 Gli animali sono stati uccisi realmente, come confermato in un’intervista dall’attrice Beta Ponicanova che interpretava Dagmar Hubertova, in un tempo e in un luogo in cui purtroppo era permesso farlo. D’altra parte anche il fatto che, come dicevo, il film fosse prodotto dall’esercito contribuì a tale efferatezza delle azioni e delle immagini.

3 Otakar Herold (questo il nome dell’anziano) non si è inselvatichito a causa della vita in solitudine, ma ha conservato vivo il ricordo e la pratica della cultura del vecchio mondo, mentre Dagmar Hubertova è stata travolta dalla durezza della vita che ha condotto dopo il disastro.

4 Come la presentazione formale ma affettuosa tra i due anziani, gesto che la figlia di Dagmar non comprende e guarda con sospetto.

5 Alcune inquadrature sui rifiuti abbandonati dalle donne o, per esempio, su uno sversamento inutile di benzina nel terreno sono tanto insistite da sembrare una critica (precoce) all’inquinamento ambientale.

6 Il western è considerato un genere cinematografico tipicamente maschile, anche se ci sono svariati esempi di western al femminile già nel cinema muto.

7 Alla luce di queste considerazioni e di questa interpretazione è ben comprensibile il motivo per cui il film, nel 1969, è incappato non solo nella censura ma addirittura nel sequestro totale di tutte le copie in circolazione (una sola copia si è salvata fortunosamente grazie a una telefonata anonima che ha avvisato Jan Schmidt in piena notte) in un momento di rivolta e di aspirazione al cambiamento. Restano oscure invece le motivazioni del premio conferito dal Vaticano al film.

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Il linguaggio specista del giornalismo

02 sabato Set 2017

Posted by Tamara Sandrin in il gabinetto del dottor Codermatz, Senza categoria

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animali, bestialità, cronaca, Erich Fromm, giornalismo, immigrati, immigrazione, psicologia sociale, razzismo, Rimini, Rodrigo Codermatz, specismo, spiaggia, stranieri, stupro, violenza, violenza sessuale, xenofobia

Foto Ansa

di Rodrigo Codermatz

Un chiaro esempio di come lo specismo nella metaforizzazione dell’animale asserva alla xenofobia e al razzismo ci è dato dai recenti fatti di cronaca sugli stupri.
Ad allarmarci e farci prendere distanza dalla fonte informativa sia essa cartacea, televisiva o in rete, dovrebbe essere innanzitutto il fatto di ritrovare la nazionalità del presunto stupratore nel titolo o, al massimo, nel sottotitolo della notizia (“Rimini, arrestato straniero dopo nuova violenza”, “Violenza sessuale, pakistano arrestato”, “Marocchino 34 anni fermato per tentata violenza sessuale a Rimini”): se non ci fosse un chiaro intento discriminatorio e razzista non avrebbe alcun senso evidenziare la nazionalità, perché lo stupro non ha bandiera; è risaputo che la maggior parte degli abusi sessuali sono perpetrati in ambiente familiare o nel cerchio di frequentazioni quotidiane (amici e parenti).
Ma osserviamo il linguaggio usato per descrivere le aggressioni: un interessante convegno dal titolo Immigrazione, paura del crimine e i media: ruoli e responsabilità tenuto a Padova nel 2012 riconosceva dei bias linguistici, delle “tendenziosità” molto frequenti in questo tipo di notizie:

  • l’uso di aggettivi negativi e aggravanti è cinque volte superiore se il criminale è un immigrato piuttosto che un italiano;

  • il citare prima il nome e poi la nazionalità (strategia Person-first) se il criminale è italiano e, viceversa, prima la nazionalità e poi il nome (Group-first) se invece è un immigrato; con ciò si allude subdolamente che il crimine è insito nella nazionalità (natura, razza) dell’immigrato di cui il soggetto del caso attuale di cronaca non è che un esempio mentre, al contrario, il criminale italiano lo è per una sua caratteristica e/o vissuto personali e individuali;

  • nel caso di immigrati c’è la preferenza del sostantivo piuttosto che dell’aggettivo: questo perché, in base a recentissimi studi, il sostantivo ha più “potere mnemonico”, è semanticamente più saliente e attiva più contenuti categoriali: inoltre sollecita stereotipi e inibisce controstereotipi. Il sostantivo, inoltre, porta alla completa decontestualizzazione del fatto, astraendolo e trasformandolo in caratteristica stabile e fattore disposizionale dell’agente, riproducibile in altri svariati contesti rispondendo così anche al bisogno di congruenza del lettore; porta all’estremo il processo descritto dal Linguistic Category Model (LCM) (Semin & Fiedler, 1988) per cui dalla concretezza enunciata dai verbi descrittivi d’azione (DAV: A colpisce B), attraverso i verbi interpretativi d’azione (IAV: A fa male a B) e i verbi di stato (SV: A odia B), la situazione concreta si è trasformata in situazione psicologica stabile, astratta dalla storia; infine si raggiunge l’aggettivo (A è aggressivo), con la perdita della situazione concreta di partenza e l’enunciazione di una caratteristica disposizionale dell’attore. Infatti questo processo linguistico di solito è usato (guarda caso) dall’ingroup per accreditarsi comportamenti positivi come naturali e, al contrario, per connotare i comportamenti negativi dell’outgroup. Il procedimento opposto, sarà usato per giustificare i comportamenti negativi dell’ingroup (provocato da circostanze esterne, da fattori situazionali del tutto accidentali) e spiegare i comportamenti positivi dell’outgroup (assolutamente non appartenenti alla sua natura ma determinati dalle circostanze). Questo, che in psicologia sociale è definito “errore ultimo di attribuzione” (Pettigrew, 1979), non fa che reiterare un’immagine positiva dell’ingroup a scapito dell’outgroup;

  • per il criminale italiano si usa la forma passiva del verbo (per es. donna stuprata da giovane dopo serata in discoteca) per deresponsabilizzarlo del crimine e rendere responsabile anche la vittima che “se l’è cercata”; all’immigrato si riserva invece la forma attiva del verbo (per es. magrebino stupra una turista) per marcare la sua colpevolezza e determinazione;

  • infine, il punto su cui volevo centrare l’attenzione. Osserviamo come viene descritto il crimine: di solito per il criminale italiano si usano metafore legate all’immagine dell’esplodere (raptus, evento isolato, scoppia la lite, è esploso…) mentre per l’immigrato immagini e metafore che associano l’uomo all’animale (branco, bestia/bestiale, selvaggio, animalesco, ecc.); l’immigrato stupra per sua natura, gli è costituzionale mentre l’italiano stupra isolatamente, eccezionalmente quando rimane vittima di un raptus o “perdita di senno” o, addirittura, quando viene provocato.

In quest’ultimo bias si rivela il massimo dell’idiozia, la bassezza e povertà intellettuale e spirituale, la mancanza di professionalità, l’incompetenza linguistica, il cattivo gusto e la malafede di questo tipo di giornalismo.
Perché alienare e scaricare la malvagità umana sull’animale? Sarebbe capace l’animale della distruttività, della crudeltà e del sadismo umano?
Sarebbero questi un residuo dell’istinto animale? -No, certo!- diremmo con Erich Fromm1: distruggere e ricercare il dominio assoluto è tipicamente umano e non istinto animale; è “aggressione maligna” non programmata filogeneticamente né biologicamente adattiva ma pura necrofilia, distruttività spontanea vendicativa ed estatica, crudeltà che porta voluttà. Soltanto l’uomo ha il gusto di distruggere la vita senza motivo: l’eredità animale non spiega la distruttività e la crudeltà umane.
L’”aggressione maligna” umana è controbilanciamento dell’isolamento, della noia, della frustrazione e del fallimento esistenziale, ricerca del brivido temporaneo: la noia, dice Fromm, è la condizione necessaria perché la violenza susciti interesse.
L’”aggressione maligna” è crudeltà mentale, desiderio di umiliare e ferire i sentimenti di un’altra persona, passione dell’esercitare il controllo assoluto, lo sfruttamento, il dominio, il potere, la sopraffazione, è xenofobia come paura dell’imprevedibile, dello sconosciuto, dell’inafferrabile, dell’altro e della sua alterità, paura del non poter afferrare e manipolare.
Nel 2001, alcuni ricercatori hanno chiesto a degli studenti belgi cosa intendessero loro per “umano”: la riposta fu “intelligenza, linguaggio, sentimenti”.
Lo studio è stato ripetuto altrove e in altre lingue: è stata presentata una lista di emozioni con il compito di indicare se e in che grado appartenessero all’uomo e/o all’animale.
Comuni alle due specie sono state ritenute la sorpresa, la collera, il dolore, il piacere e la paura. Tipicamente umane, invece, la tenerezza, l’amore, la speranza, il senso di colpa, la vergogna. Improvvise, irruenti, esterne, indomabili le prime; meno intense, meno evidenti, piuttosto interne e tipiche di una fase avanzata di sviluppo individuale le seconde. I risultati ricalcavano la distinzione di Ekman (1992) tra emozioni primarie ed emozioni secondarie.
Successivi esperimenti hanno dimostrato che le emozioni primarie (comuni alle due specie ma insignificanti per definire l’umanità) venivano associate equamente all’ingroup come all’outgroup mentre quelle secondarie venivano associate maggiormente all’ingroup.
È emersa quindi un’asimmetria nell’attribuzione dell’essenza umana che i ricercatori (Leyens, Rodrigues et al.) hanno definito infra-umanizzazione: questo processo di attribuzione non dipenderebbe né dallo status sociale, né dal pregiudizio ed è, a loro avviso, un aspetto dell’etnocentrismo poiché considera il proprio gruppo più umano o, per meglio dire, l’ingroup umano e l‘outgroup non-umano.
Ulteriori esperimenti (2006) su come ingroup e outgroup si associno alle emozioni secondarie e al concetto di umanità hanno dimostrato incontestabilmente che l’attivazione congiunta ingroup-emozioni secondarie rende più accessibile “umanità” e disinibisce outgroup.
In sostanza: gli individui tendono ad attribuire al proprio gruppo ciò che secondo loro differenzia l’uomo dall’animale; in altre parole non riconoscono l‘outgroup come umano.
L’animalità funge quindi da agente discriminatorio: ecco come l’uomo si serve ennesimamente dell’immagine dell’animale per dominare e distruggere l’altro; ecco come lo specismo diviene razzismo e xenofobia e, attraverso i media, rende il pregiudizio ordine del giorno contravvenendo ai diritti inalienabili dell’essere umano: quello alla libertà e all’eguaglianza. Un grave crimine (che contravviene anche all’articolo 3 della costituzione italiana) viene quotidianamente reiterato nelle maggiori testate giornalistiche e televisive nazionali.
C’è, infine, un pericolo in tutto ciò e mi riferisco al fenomeno studiato da Allport nel 1954 noto come “Stereotype threat” o “la profezia che si autoavvera”: la vittima del pregiudizio teme di confermare le previsioni che lo stereotipo avanza nei suoi confronti e questo senso di vulnerabilità produce inevitabilmente dei cali vistosi nelle sue prestazioni.
Dal punto di vista degli animali, indicibile e irrecuperabile è il discredito in cui li gettiamo: insormontabile la distanza che attraverso le teorie e le parole noi creiamo tra noi e loro.

1E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, Milano Mondadori, 1975

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