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Il linguaggio specista del giornalismo

02 sabato Set 2017

Posted by Tamara Sandrin in il gabinetto del dottor Codermatz, Senza categoria

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Tag

animali, bestialità, cronaca, Erich Fromm, giornalismo, immigrati, immigrazione, psicologia sociale, razzismo, Rimini, Rodrigo Codermatz, specismo, spiaggia, stranieri, stupro, violenza, violenza sessuale, xenofobia

Foto Ansa

di Rodrigo Codermatz

Un chiaro esempio di come lo specismo nella metaforizzazione dell’animale asserva alla xenofobia e al razzismo ci è dato dai recenti fatti di cronaca sugli stupri.
Ad allarmarci e farci prendere distanza dalla fonte informativa sia essa cartacea, televisiva o in rete, dovrebbe essere innanzitutto il fatto di ritrovare la nazionalità del presunto stupratore nel titolo o, al massimo, nel sottotitolo della notizia (“Rimini, arrestato straniero dopo nuova violenza”, “Violenza sessuale, pakistano arrestato”, “Marocchino 34 anni fermato per tentata violenza sessuale a Rimini”): se non ci fosse un chiaro intento discriminatorio e razzista non avrebbe alcun senso evidenziare la nazionalità, perché lo stupro non ha bandiera; è risaputo che la maggior parte degli abusi sessuali sono perpetrati in ambiente familiare o nel cerchio di frequentazioni quotidiane (amici e parenti).
Ma osserviamo il linguaggio usato per descrivere le aggressioni: un interessante convegno dal titolo Immigrazione, paura del crimine e i media: ruoli e responsabilità tenuto a Padova nel 2012 riconosceva dei bias linguistici, delle “tendenziosità” molto frequenti in questo tipo di notizie:

  • l’uso di aggettivi negativi e aggravanti è cinque volte superiore se il criminale è un immigrato piuttosto che un italiano;

  • il citare prima il nome e poi la nazionalità (strategia Person-first) se il criminale è italiano e, viceversa, prima la nazionalità e poi il nome (Group-first) se invece è un immigrato; con ciò si allude subdolamente che il crimine è insito nella nazionalità (natura, razza) dell’immigrato di cui il soggetto del caso attuale di cronaca non è che un esempio mentre, al contrario, il criminale italiano lo è per una sua caratteristica e/o vissuto personali e individuali;

  • nel caso di immigrati c’è la preferenza del sostantivo piuttosto che dell’aggettivo: questo perché, in base a recentissimi studi, il sostantivo ha più “potere mnemonico”, è semanticamente più saliente e attiva più contenuti categoriali: inoltre sollecita stereotipi e inibisce controstereotipi. Il sostantivo, inoltre, porta alla completa decontestualizzazione del fatto, astraendolo e trasformandolo in caratteristica stabile e fattore disposizionale dell’agente, riproducibile in altri svariati contesti rispondendo così anche al bisogno di congruenza del lettore; porta all’estremo il processo descritto dal Linguistic Category Model (LCM) (Semin & Fiedler, 1988) per cui dalla concretezza enunciata dai verbi descrittivi d’azione (DAV: A colpisce B), attraverso i verbi interpretativi d’azione (IAV: A fa male a B) e i verbi di stato (SV: A odia B), la situazione concreta si è trasformata in situazione psicologica stabile, astratta dalla storia; infine si raggiunge l’aggettivo (A è aggressivo), con la perdita della situazione concreta di partenza e l’enunciazione di una caratteristica disposizionale dell’attore. Infatti questo processo linguistico di solito è usato (guarda caso) dall’ingroup per accreditarsi comportamenti positivi come naturali e, al contrario, per connotare i comportamenti negativi dell’outgroup. Il procedimento opposto, sarà usato per giustificare i comportamenti negativi dell’ingroup (provocato da circostanze esterne, da fattori situazionali del tutto accidentali) e spiegare i comportamenti positivi dell’outgroup (assolutamente non appartenenti alla sua natura ma determinati dalle circostanze). Questo, che in psicologia sociale è definito “errore ultimo di attribuzione” (Pettigrew, 1979), non fa che reiterare un’immagine positiva dell’ingroup a scapito dell’outgroup;

  • per il criminale italiano si usa la forma passiva del verbo (per es. donna stuprata da giovane dopo serata in discoteca) per deresponsabilizzarlo del crimine e rendere responsabile anche la vittima che “se l’è cercata”; all’immigrato si riserva invece la forma attiva del verbo (per es. magrebino stupra una turista) per marcare la sua colpevolezza e determinazione;

  • infine, il punto su cui volevo centrare l’attenzione. Osserviamo come viene descritto il crimine: di solito per il criminale italiano si usano metafore legate all’immagine dell’esplodere (raptus, evento isolato, scoppia la lite, è esploso…) mentre per l’immigrato immagini e metafore che associano l’uomo all’animale (branco, bestia/bestiale, selvaggio, animalesco, ecc.); l’immigrato stupra per sua natura, gli è costituzionale mentre l’italiano stupra isolatamente, eccezionalmente quando rimane vittima di un raptus o “perdita di senno” o, addirittura, quando viene provocato.

In quest’ultimo bias si rivela il massimo dell’idiozia, la bassezza e povertà intellettuale e spirituale, la mancanza di professionalità, l’incompetenza linguistica, il cattivo gusto e la malafede di questo tipo di giornalismo.
Perché alienare e scaricare la malvagità umana sull’animale? Sarebbe capace l’animale della distruttività, della crudeltà e del sadismo umano?
Sarebbero questi un residuo dell’istinto animale? -No, certo!- diremmo con Erich Fromm1: distruggere e ricercare il dominio assoluto è tipicamente umano e non istinto animale; è “aggressione maligna” non programmata filogeneticamente né biologicamente adattiva ma pura necrofilia, distruttività spontanea vendicativa ed estatica, crudeltà che porta voluttà. Soltanto l’uomo ha il gusto di distruggere la vita senza motivo: l’eredità animale non spiega la distruttività e la crudeltà umane.
L’”aggressione maligna” umana è controbilanciamento dell’isolamento, della noia, della frustrazione e del fallimento esistenziale, ricerca del brivido temporaneo: la noia, dice Fromm, è la condizione necessaria perché la violenza susciti interesse.
L’”aggressione maligna” è crudeltà mentale, desiderio di umiliare e ferire i sentimenti di un’altra persona, passione dell’esercitare il controllo assoluto, lo sfruttamento, il dominio, il potere, la sopraffazione, è xenofobia come paura dell’imprevedibile, dello sconosciuto, dell’inafferrabile, dell’altro e della sua alterità, paura del non poter afferrare e manipolare.
Nel 2001, alcuni ricercatori hanno chiesto a degli studenti belgi cosa intendessero loro per “umano”: la riposta fu “intelligenza, linguaggio, sentimenti”.
Lo studio è stato ripetuto altrove e in altre lingue: è stata presentata una lista di emozioni con il compito di indicare se e in che grado appartenessero all’uomo e/o all’animale.
Comuni alle due specie sono state ritenute la sorpresa, la collera, il dolore, il piacere e la paura. Tipicamente umane, invece, la tenerezza, l’amore, la speranza, il senso di colpa, la vergogna. Improvvise, irruenti, esterne, indomabili le prime; meno intense, meno evidenti, piuttosto interne e tipiche di una fase avanzata di sviluppo individuale le seconde. I risultati ricalcavano la distinzione di Ekman (1992) tra emozioni primarie ed emozioni secondarie.
Successivi esperimenti hanno dimostrato che le emozioni primarie (comuni alle due specie ma insignificanti per definire l’umanità) venivano associate equamente all’ingroup come all’outgroup mentre quelle secondarie venivano associate maggiormente all’ingroup.
È emersa quindi un’asimmetria nell’attribuzione dell’essenza umana che i ricercatori (Leyens, Rodrigues et al.) hanno definito infra-umanizzazione: questo processo di attribuzione non dipenderebbe né dallo status sociale, né dal pregiudizio ed è, a loro avviso, un aspetto dell’etnocentrismo poiché considera il proprio gruppo più umano o, per meglio dire, l’ingroup umano e l‘outgroup non-umano.
Ulteriori esperimenti (2006) su come ingroup e outgroup si associno alle emozioni secondarie e al concetto di umanità hanno dimostrato incontestabilmente che l’attivazione congiunta ingroup-emozioni secondarie rende più accessibile “umanità” e disinibisce outgroup.
In sostanza: gli individui tendono ad attribuire al proprio gruppo ciò che secondo loro differenzia l’uomo dall’animale; in altre parole non riconoscono l‘outgroup come umano.
L’animalità funge quindi da agente discriminatorio: ecco come l’uomo si serve ennesimamente dell’immagine dell’animale per dominare e distruggere l’altro; ecco come lo specismo diviene razzismo e xenofobia e, attraverso i media, rende il pregiudizio ordine del giorno contravvenendo ai diritti inalienabili dell’essere umano: quello alla libertà e all’eguaglianza. Un grave crimine (che contravviene anche all’articolo 3 della costituzione italiana) viene quotidianamente reiterato nelle maggiori testate giornalistiche e televisive nazionali.
C’è, infine, un pericolo in tutto ciò e mi riferisco al fenomeno studiato da Allport nel 1954 noto come “Stereotype threat” o “la profezia che si autoavvera”: la vittima del pregiudizio teme di confermare le previsioni che lo stereotipo avanza nei suoi confronti e questo senso di vulnerabilità produce inevitabilmente dei cali vistosi nelle sue prestazioni.
Dal punto di vista degli animali, indicibile e irrecuperabile è il discredito in cui li gettiamo: insormontabile la distanza che attraverso le teorie e le parole noi creiamo tra noi e loro.

1E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, Milano Mondadori, 1975

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Fratello da un altro pianeta

11 martedì Lug 2017

Posted by Tamara Sandrin in Entr'acte

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Ai confini della realtà, alieni, alieno, alterità, animalità, E.T. l'extraterrestre, Franklin Schaffner, Fratello da un altro pianeta, il pianeta delle scimmie, Insetti giganti, Insetti giganti e alieni mostruosi, Joe Morton, John sayles, razzismo, Robert Wise, Rod Serling, specismo, Steven Spielberg, Tamara Sandrin, The twilight zone, Ultimatum alla terra, wasp

 

di Tamara Sandrin

In Insetti giganti e alieni mostruosi1 ho cercato di rintracciare il tema del rapporto tra alterità e animalità nei film di fantascienza degli anni ’50 e ’60. Da questa trattazione sono rimasti esclusi molti film per svariati motivi; tra i tanti, per esempio, ci sono film in bilico tra l’horror e la fantascienza, diverse pellicole veramente inguardabili, alcuni episodi molto interessanti de Ai confini della realtà2 e, appunto, Fratello da un altro pianeta3, film di John Sayles del 1984 (quindi fuori dai confini temporali che mi ero posta).
John Sayles recupera un genere in rapida evoluzione (votato a divenire, purtroppo, contenitore di effetti speciali senza altri contenuti) e realizza un film low budget coinvolgente, spassoso, intelligente e ricco di spunti di riflessione:

“Fratello da un altro pianeta” usa il genere come lo usavano i grandi nell’età dell’oro di Hollywood: come la più semplice ed efficace metafora del presente.4

Fratello da un altro pianeta racconta la storia di Brother, alieno antropomorfo di colore, schiavo in fuga dal suo pianeta, che precipita con la sua navicella sulla Terra, al largo di Ellis Island e poi cerca rifugio ad Harlem.
Brother è muto ma – anche grazie alla sua capacità di aggiustare qualsiasi cosa e di curare le ferite – riesce a farsi subito benvolere dagli abitanti del quartiere che lo aiutano a fuggire e a nascondersi dagli agenti dell’immigrazione, che in realtà sono anch’essi alieni (bianchi), sgherri degli sfruttatori di Brother, che cercano di catturarlo per riportarlo alla sua condizione di schiavitù sul loro pianeta.
Il giudizio morale e soprattutto politico del film è evidente.
Brother, nonostante arrivi dagli spazi siderali, sembra essere scaturito dagli abissi della società terrestre, contrapponendosi all’élite bianca, wasp5, sia sulla Terra che sul suo pianeta: d’altra parte lo stesso termine aliens in inglese indica anche gli immigrati, gli stranieri, i diversi. E non a caso l’alieno nero arriva proprio all’Immigration center di Ellis Island, approdo di gran parte dei migranti che cercavano fortuna o scampo negli Stati Uniti, trovando invece spesso discriminazione e ostilità.
La fuga ad Harlem permette a Brother di mimetizzarsi tra persone molto simili a lui che sono, probabilmente anche per questo, ben disposte ad aiutarlo: non vedono differenza tra loro e Brother, non lo percepiscono come altro ma come, appunto, un fratello. Nessuno, tranne un bambino, si rende conto che è un extraterrestre.
E proprio il rapporto tra Brother e il bambino mi fa subito pensare al altri due film di fantascienza (Ultimatum alla Terra6 ed E.T. l’extra-terrestre7) e a due episodi de Ai confini della realtà (Il dono8 e Il fuggitivo9). In questi esempi la dinamica degli eventi è la stessa: un alieno buono arriva sulla terra e instaura un rapporto amichevole con un bambino (o una bambina, come nel caso de Il fuggitivo), che si prodiga per aiutarlo e riceve a sua volta aiuto (per esempio Brother, E.T. e Ben – il fuggitivo – hanno tutti poteri taumaturgici).
In questi film, tranne che in E.T., l’alieno ha forma perfettamente umana ed è quindi in grado di confondersi con i terrestri; nonostante questo l’uomo astrale di Ultimatum alla Terra e lo straniero de Il dono vengono aggrediti, inseguiti e perseguitati: il tema della caccia all’alieno è comune e ricorrente. Nel caso de Il fuggitivo l’extraterrestre è ricercato, come in Fratello da un altro pianeta, da due agenti provenienti dal suo stesso pianeta; ma, a differenza di Brother, Ben è re sul suo pianeta e viene inseguito perché continui a svolgere il suo incarico di dominio. La simmetria con Brother è quindi perfetta.
Mentre in Fratello da un altro pianeta e ne Il dono, protagonista e personaggi sono (quasi) tutti, rispettivamente, neri e messicani, negli altri esempi invece si confermano come i campioni della normalità come l’ho delineata in Insetti giganti e alieni mostruosi: il protagonista (anche quando è alieno) è maschio, bianco, eterosessuale, normodotato, ecc. Nel caso di E.T. l’alieno non può confondersi con gli umani, ma avendo aspetto simile a una simpatica tartaruga e atteggiamento tenero e infantile muove a simpatia i ragazzini, perfettamente wasp, che si sentono subito pronti a dimostrargli solidarietà e a prestargli il loro aiuto. Avrebbero fatto lo stesso con un alieno come Brother, un immigrato clandestino nero inseguito dalla polizia?
A differenza della maggior parte dei film di fantascienza, come già accennato, Brother verrà accolto e aiutato da un’intera comunità: il film è una chiara critica sociale nei confronti della discriminazione razziale, del pregiudizio, della paura dell’altro, e mette in evidenza l’importanza e la necessità della solidarietà e della comunione tra le persone.
La critica e la condanna della discriminazione razziale era già stata espressa ne Il pianeta delle scimmie10, ma in modo metaforico, usando degli attori camuffati da scimmie di razze diverse, con ruoli diversi nella società scimmiesca11, e relegando l’uomo nella condizione di schiavo animale, mentre in Fratello da un altro pianeta è palese, aperta, dichiarata.

C’è un particolare aspetto di Brother che mi interessa sopra ogni altro: sono i suoi piedi. Sono piedi simili a quelli di un animale, non sono piedi umani. È l’unico aspetto di Brother che lo allontana dall’umano ed è l’unica parte del corpo che lui non mostra a nessuno, nemmeno quando fa l’amore con la bella cantante di cui si è infatuato (Dee Dee Bridgewater), nemmeno al bambino a cui ha rivelato di provenire dallo spazio. Possiamo ricordare la battuta sui piedi di E.T., improvvisata da Drew Barrymore: “Non mi piacciono i suoi piedi!”. Probabilmente avrebbe detto lo stesso Dee Dee Bridgewater, se li avesse visti, mentre si limita a consigliargli di tagliarsi le unghie.
Ci troviamo quindi di fronte a un alieno, muto, nero e con i piedi di animale: la metafora è fin troppo scoperta. È evidente che le persone di colore non sono viste dagli wasp come perfettamente umane.
Noi possiamo azzardare ad ampliare il discorso e affermare che l’altro, in genere, non è perfettamente umano: ha sempre degli aspetti che differiscono da noi, dall’ideale di noi stessi che abbiamo inventato, e che si avvicinano a quell’animalità che abbiamo ripudiato.
Come ho evidenziato in molti film, ancora una volta, alterità e animalità vanno a coincidere.

 

Note:

1 Tamara Sandrin, Insetti giganti e alieni mostruosi. Alterità e animalità nel cinema di fantascienza degli anni ’50 e ’60, Grado 2017

2 The twilight zone, serie televisiva americana ideata da Rod Serling andata in onda sulla CBS dal 1959 al 1964.

3 The Brother from another planet, regia di John Sayles, USA 1984

4 Davide Ferrario, Cineforum, n. 257, 7/1986

5 White Anglo-Saxon Protestant

6 The day the earth stood still, regia di Robert Wise, USA 1951

7 E.T. the Extra-Terrestrial, regia di Steven Spielberg, USA 1982

8 The twilight zone, The gift, ep. 32, stagione 3, trasmesso il 17 aprile 1962, regia di Allen H. Miner, sceneggiatura di Rod Serling.

9 The twilight zone, The fugitive, ep. 25. stagione 3, trasmesso il 9 marzo 1962, regia di Richard L. Bare, sceneggiatura di Charles Beaumont.

10 Planet of the Apes, regia di Franklin J. Schaffner, USA 1968

11 è interessante a questo proposito riportare un aneddoto riferito dagli attori e dalle comparse che ricordano come nelle pause di lavorazione loro stessi si riunivano spontaneamente in base alla razza delle scimmie che interpretavano: si potevano così vedere dei gruppetti omogenei di (attori truccati da) gorilla, oranghi o scimpanzè!

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