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Antispecismo e psicoanalisi

12 mercoledì Set 2018

Posted by Tamara Sandrin in il gabinetto del dottor Codermatz, Senza categoria

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di Rodrigo Codermatz

Articolo già pubblicato in Liberazioni – Rivista di critica antispecista. Anno VIII / n. 30 / Autunno 2017 (pdf scaricabile qui)

Cos’è lo specismo?
Potremmo intendere lo specismo come una struttura nel senso che Rapaport dà alla “parola”, cioè un sistema di comprensione, un’organizzazione, un modo di funzionare statico o a lento ritmo di cambiamento.1 Rapaport estende tale definizione anche alle strutture cognitive che sono sia gli strumenti quasi permanenti che il processo cognitivo utilizza senza doverli inventare ogni volta ex novo sia quelle organizzazioni quasi permanenti degli stessi che costituiscono il telaio dei processi cognitivi dell’individuo: per Rapaport, insomma, le strutture cognitive più comuni sono le strutture della memoria. Gill, riprendendo Rapaport, sostiene che tutti i meccanismi mentali rientrano nella definizione di struttura psichica intesa come forma di funzionamento che non viene creata ad hoc, ma che è in permanenza a disposizione del processo psichico2, mentre per Holt la struttura non è che un programma per elaborare una combinazione di informazioni interne e ambientali.3 Il principio che governa la struttura è quello di garantire uno stato percettivo di economia affettiva, ossia un basilare senso di sicurezza o un tempistico recupero riequilibrante nel caso questo fosse improvvisamente minacciato o turbato: la struttura è ricerca della familiarità percettiva, della sicurezza.
Da questa prospettiva possiamo allora dire che lo specismo è una struttura: un modo di funzionare basato sul semplice principio per cui la nostra sicurezza dipende dalla sopraffazione, sottomissione, dominio e distruzione dell’altro e di tutto ciò che minaccia la nostra identificazione percettiva; in una parola del
dis-umano: è così che noi funzioniamo o, come dice Sartre ne L’essere e il nulla, che noi esistiamo la struttura. In questa sua funzionalità, quindi, la struttura è ambigua: in quanto segnale-messaggio è principalmente reazione ai fattori disturbanti (rumore), è retroazione negativa, morfostasi, nel senso che si rende meno ridondante inglobando il rumore (codifica di sorgente). Di conseguenza, riorganizzata e rafforzata, è anche retroazione positiva, morfogenesi, codifica e intensificazione del proprio segnale. Piaget scriveva che l’adattamento vitale e psicologico dell’intelligenza è la proprietà non solo di resistere al rumore in modo efficace, ma anche di utilizzarlo fino a trasformarlo in fattore di organizzazione.4
In quanto morfogenesi adattiva, più che omeostatica, la struttura è omeoretica: percettivamente non ritorna mai allo stesso punto, è un processo irreversibile; ogni istante della nostra esistenza è
soglia, curva di piegatura, singolarità per usare un termine di Magoroh Maruyama, puntualità catastrofica in cui si investe sull’accrescimento e il rafforzamento della struttura. Evolvendosi in forme sempre più complesse di sicurezza, la struttura continua comunque a conservare le sue forme passate, più primitive che non si estinguono mai, ma continuano a persistere pronte a ripresentarsi quando la realtà in qualche modo inibisce la funzione inibente della struttura presente. Sandler parlava di «persistenza della struttura»:

Noi abbiamo proposto l’ipotesi che le strutture, nel corso degli eventi, non vadano mai perse, e che invece si creino nuove strutture supplementari di crescente complessità, che nel corso dello sviluppo si sovrappongono a quelle più antiche […]. Nessuna struttura, una volta creata, va mai perduta (anche se può essere danneggiata dai normali processi di decadenza). Le strutture vengono continuamente modificate sulla base dell’esperienza, tramite sovrapposizione di ulteriori strutture (che possono conservare parti sostanziali di quelle precedenti). Una componente essenziale di queste nuove strutture consiste nella presenza di fattori che servono a inibire l’impiego delle strutture sostituite.5

Seguendo Cooper potremmo dire che la vita di una persona si apre in spirali, passando ripetutamente attraverso gli stessi punti, ma a differenti livelli di integrazione e di complessità6. La vita rimarca quel sentiero della necessità (Χρεία-οδος), in cui perdiamo noi stessi giorno per giorno sin dall’infanzia perché in una società fondata sullo sfruttamento non può essere altrimenti, come affermava Sartre.
Quando l’accumulo di errori, di ambiguità, di contraddittorietà, di equivocità infrastrutturali diviene così consistente e ripetitivo da compromettere o paralizzare l’informazione7, allora si realizza il rumore come insicurezza, come aggressione aleatoria senza memoria, poiché, inibita l’ultima sua forma evolutiva come storicità8, la struttura (che è memoria) regredirà alle forme più primitive e basilari di sicurezza; quanto più invalidante sarà il rumore, tanto più originaria e primordiale sarà la struttura rassicurante recuperata e ripristinata che potrà essere sia la propria infanzia (al limite ontogenetico, l’identificazione primaria caratteristica del rapporto anaclitico-orale dell’individuo col gruppo micro-sociale di appartenenza) sia l’infanzia filogenetica del gruppo stesso (da qui il mito della tradizione, del sangue, del rito, della civiltà, del progresso, dell’evoluzione, del “naturale”, ecc.).
Se intendiamo lo specismo come struttura che definisce la subordinazione dell’animale non umano a quello umano in termini di necessità, si mette in atto un pericolosissimo processo di
morfostasi infrastrutturale: ad esempio, il welfarismo, opera di integrazione del disturbo che funge da momento antitetico indispensabile alla riconferma ridondante del segnale antropocentrico che diviene, contemporaneamente, morfogenesi, ossia momento “evolutivo” della struttura, grazie al quale questa si amplia e assume maggiore comprensività e complessità, più organizzazione, più potenza dal momento che ci offre ulteriore sicurezza affettiva e ci dispensa da un sovraccarico percettivo (presa di coscienza). In caso di disturbo aggressivo l’integrazione viene più o meno consciamente tentata, con una regressione a forme più semplici e primitive di sicurezza o, per lo meno, a situazioni deresponsabilizzanti come quella dell’infanzia durante la quale sono gli altri a decidere e agire per noi: il sistema si approfitta di questi meccanismi, creando e promuovendo, anche a livello mediatico, scenari fantastici e infantili, comunque irreali, d’incontro con l’animale non umano. E qui, come vedremo, la teoria psicoanalitica può dire qualcosa, svelando la natura demagogica di queste sicurezze.
C’è poi un altro aspetto da considerare in merito alla struttura: essendo composta da diverse griglie interferenti, intersecanti, interdipendenti e interfunzionali, l’
aggressione aleatoria senza memoria può avere il suo fuoco in ogni dove, in qualsiasi stato intersezionale, nodo o livello della struttura e dare origine a un disequilibrio traversale: qualsiasi punto della struttura è potenzialmente anti-struttura. Sussiste quindi, in questa complessità, la possibilità di un rapido innescarsi di un processo di squilibrio epigenetico che può derivare dagli orizzonti più impensabili e improbabili, incommensurabili e imprevedibili e che l’effetto di questo nuovo processo, di questo nuovo input procedurale, vada a interferire dentro le griglie della struttura, rallentandone o accelerandone l’involuzione o l’evoluzione.
Quando non intersecano la lotta antispecista, gli altri movimenti di liberazione e di opposizione all’oppressione e alla repressione come, ad esempio, quello anarchico, devono riconoscere la loro insufficienza e incompletezza poiché la struttura che sta alla base del mancato incontro è quella descritta. E questo vale anche per le lotte contro imperialismo, il consumismo, la massificazione, il sessismo, ecc.; queste, infatti, sono tutte lotte contro il dominio, ma allo stesso tempo sono aggressori aleatori senza memoria dello specismo.

Perché antispecismo e psicoanalisi?
Per prima cosa va detto che la struttura si riproduce, si mantiene e si trasmette inter- e intra-generazionalmente tramite processi e dinamiche transferali mutuati dall’infanzia con le sue persone importanti e il suo piccolo mondo peda-demagogico. Così il nostro genitore/bambino si guadagna l’approvazione e la gratificazione rassicurante del suo ambiente/padre quando lo clona e lo transustanzia in noi già dalle nostre prime lallazioni, riducendoci a un precipitato dell’Io collettivo delle generazioni che ci hanno preceduto e delle loro sicurezze e convinzioni. Questo «processo di delega», come lo definirebbe Helm Stierlin, questa incarnazione della struttura genitoriale non è che il Super-io di Freud:

In genere, i genitori e le autorità analoghe seguono, nell’educazione del bambino, i precetti del proprio Super-io. Qualunque sia l’assestamento a cui il loro Io è giunto nei confronti del Super-io, essi sono severi ed esigenti nell’educazione del bambino. Hanno dimenticato le difficoltà della propria infanzia e sono contenti di potersi identificare ora completamente con i propri genitori, che a suo tempo hanno imposto le loro tante pesanti limitazioni. In tal modo, il Super-io del bambino, in effetti, non viene costituito secondo il modello dei genitori, ma del loro Super-io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore durevoli che, per questa via, si sono propagati per generazioni. É facile indovinare quanto sia d’aiuto la considerazione del Super-io per comprendere il comportamento sociale dell’uomo – per esempio quello della delinquenza – e forse anche per trarne suggerimenti pratici ai fini dell’educazione […]. Il passato, la tradizione della razza e del popolo […] sopravvive nelle ideologie del Super-io.

È pertanto un processo transferale a rigenerare la struttura, a riprodurre un sistema sociale, culturale ed economico come lo specismo fondato sullo sfruttamento di forme di esistenza che, in quanto divergenti dai valori e dalle modalità di funzionamento trasmessici dalla famiglia, sono ritenute inferiori e subordinabili alla nostra sicurezza:

Così il fatto di mangiare può avere una base genetica ma, per la massima parte, la scelta del tempo in cui mangiare, di ciò che mangiamo, di come mangiamo e di come ci comportiamo quando stiamo mangiando sono fatti culturali e richiedono di essere esaminati a un livello superiore di integrazione sistemica e comportamentale. Possiamo concluderne immediatamente che la conoscenza che un soggetto ha di se stesso e del mondo […] più spesso viene appresa dall’interno della propria famiglia e della propria cultura. Il fatto è che i membri di una tradizione culturale apprendono non soltanto quale comportamento adottare in una determinata situazione ma anche che cosa dire in proposito. Ciò che si impara a dire diventa ciò che si impara a pensare.9

Noi ci troviamo gettati (nel senso che l’esistenzialismo ha dato a questo termine) in queste dinamiche transferali e le ripercorriamo quotidianamente regredendo, come detto, al nido o al grembo materno o, ancor più indietro, al “sangue”, alla caverna, alle nostre strutture più primitive, ai nostri processi primari. Scrive Cooper:

La maggior parte di noi non si è liberata dai pregiudizi, dalle credenze e dalle idee della propria infanzia: le nostre reazioni irrazionali scaturiscono dalla nostra cecità nell’infanzia, dalla prolungata demenza dei primi anni di vita. Ma, dice Sartre, che cos’è questa infanzia insuperabile se non un modo particolare di vivere gli interessi generali dell’ambiente? […]. Noi pensiamo con quelle prime deviazioni, noi agiamo con i gesti appresi da coloro che vogliamo cacciar via […]. Noi viviamo la nostra infanzia come nostro futuro […], i nostri ruoli sono sempre strutture future.10

Così, proprio nei momenti che necessiterebbero, per dirla con Jacques Lacan, di un’oggettivazione superiore, questo anacronistico infantilismo non fa che ripetere un segnale ridondante, un ammasso di bugie, ambiguità, contraddizioni e ipocrisie tenute in piedi dagli apparati che fanno poggiare la famiglia sull’educazione, religione compresa:

L’ultimo contributo alla critica della visione religiosa del mondo è stato fornito dalla psicoanalisi, dal momento che essa ha indicato l’origine della religione nello stato indifeso del bambino e ha fatto derivare i suoi contenuti dai desideri e dai bisogni d’infanzia, protrattisi sino alla maturità.11

Con questo arriviamo alla seconda ragione del rapporto tra antispecismo e psicoanalisi. David Cooper, riprendendo le Questioni di metodo di Sartre, afferma:

Oggi, soltanto la psicoanalisi ci consente di studiare il processo attraverso cui un ragazzo, brancolando nel buio, tenta per la prima volta di giocare il ruolo impostogli dai genitori. Solo la psicoanalisi ci spiega se il ragazzo evade questo ruolo, o se il ruolo si dimostra per lui irrecusabile, o se egli lo accetta interamente. Soltanto la psicoanalisi ci permette di trovare nell’adulto l’uomo intero, con tutto il peso della sua storia […]. L’esistenzialismo, con l’aiuto della psicoanalisi, può oggi studiare quelle situazioni in cui l’uomo ha perduto se stesso fin dall’infanzia.12

A partire da queste dinamiche transferenziali, la teoria psicoanalitica ci offre validissimi strumenti per comprendere i sistemi di difesa (che potremmo definire razionalizzanti di tipo distorsivo e di tipo disattentivo) ai quali ricorriamo per mantenerci sicuri entro una struttura, per articolarla e trasformarla in complesso, in ineluttabile restringimento dell’Io; difese che ci rendono incapaci di affrontare il cambiamento, la critica e la dialettica e che favoriscono l’insorgere di fobie obbliganti e paralizzanti. Fobie che assumono la forma di pregiudizi e atteggiamenti discriminatori che si avvalgono del bagaglio acritico di norme e valori trasmessici nell’educazione e dalla tradizione e che si scaricano emotivamente in forme acute di controllo, censura, repressione, persuasione, sottomissione, persecuzione, segregazione, emarginazione, ostracismo, razzismo, xenofobia, totalitarismo e autoritarismo livellante – forme che possono agire anche a livello di popolo o di massa ovunque si crei una realtà partecipativa che escluda altre espressioni.
La psicoanalisi ci mette di fronte al nostro atavico persecutore riflettente gli elementi originanti la paura e l’insicurezza, elementi costitutivi della nostra impotenza a opporre un rifiuto, della nostra impossibilità emotiva ad avvicinarci al cambiamento, al diverso, al nuovo, a una struttura-altra ormai incalzante che, nel suo esordio, si presenta sempre percettivamente insicura e ansiogena. La psicoanalisi ci svela la gabbia in cui ci rinchiudiamo, ossia l’ambiente familiare e dell’infanzia, nostro vero e proprio esoscheletro, corazza e armatura. La psicoanalisi ci parla del nostro continuo stato regressivo, della nostra tendenza a ritirarci nella nostra infanzia di fronte alla maturità del lutto necessario al cambiamento, alla messa in gioco; ci parla del rischio di esporsi a una situazione di mera vivibilità perdendo l’accesso a un benessere più autentico, più completo –creativo e non adattivo, propositivo e non ripetitivo, altruistico e non egoistico. In breve, la psicoanalisi offre all’antispecismo gli strumenti per smascherare, interrompere, decostruire, detronizzare e neutralizzare queste dinamiche regressive – autentiche forze reazionarie –, al fine di incrinarne la struttura e di silenziare la loro richiesta di acquiescenza.
Intesa come “sospensione della struttura” e dei suoi meccanismi riproduttivi, la teoria psicoanalitica può fornire all’antispecismo la forza e le certezze per un vero e proprio processo di riappropriazione del nostro tempo cronologico, della nostra età evolutiva, della nostra stessa storicità e dell’attualità come emergenza nel doppio senso di ciò che emerge (il fatto) e di ciò che urge (perentorietà). Possiamo allora parlare letteralmente di un atto terapeutico di chiarificazione esistenziale, atto terapeutico che analizza, riconosce ed elimina un conflitto e un’ambiguità comunque esistenti in noi, potendo portarci alla scoperta di noi stessi, all’emersione dal paradiso dell’infanzia in un percorso di maturazione ricco di punti di appoggio, di punti di vista, di possibilità, di quella energia e forza empatica che Edoardo Weiss definiva la «duplicazione risonante in noi dell’altro».13

Al contrario, lo specismo è il riassestarsi, l’accomodarsi, l’adattarsi della struttura come sintomo; soluzione adattiva estremamente autistica e narcisistica nella connotazione comune a questi due termini: centralità su se stessi e decentramento, annientamento dell’altro. Lo specismo, al pari di una nevrosi e psicosi, si chiude nella sua visione anacronistica infantile, regredisce e si allontana dalla realtà, affidandosi a una sua visione distorta, a un approccio superficiale, scontato e arido, a una visione rassicurante della morte e della sofferenza dell’altro. Per concludere, una citazione tratta da una delle ultime lezioni di Freud, citazione che riassume le mie considerazioni:

Nella psicoanalisi sono contenuti sufficienti momenti rivoluzionari per garantire che chi è stato da essa educato non si porrà mai più avanti nella vita, dalla parte della reazione e dell’oppressione.14

Note:

1 David Rapaport, «Le strutture cognitive», in Scritti 1942-1960, trad. it. di G. Forlì, Feltrinelli, Milano 1977.

2 Merton Gill, Il modello topico nella teoria psicoanalitica ,trad. it. di L. Baruffi, Boringhieri, Torino 1979.

3 Robert Rutherford Holt, «Ego Autonomy Re-evaluated», in «International Journal of Psycho-Analysis», vol. 46, 1962, pp. 151-167.

4 Jean Piaget, Adattamento vitale e psicologico dell’intelligenza, trad. it. di L. Mori, Edizioni OS, Firenze 1974.

5 Joseph Sandler, La ricerca in psicoanalisi, trad. it. di P. Coen Pirani, Boringhieri, Torino 1981, vol. II, pp. 85 e 172-173.

6 Ronald D. Laing e David G. Cooper, Ragione e violenza, trad. it. di G. Lisciani, Armando Editore, Roma 1978, p. 68.

7 Potremmo riprendere la definizione di informazione di James G. Miller: «Grado di libertà, esistente in una situazione data, di scegliere fra segnali, simboli, messaggi o modelli che devono essere trasmessi»; in James G. Miller, «Sistemi viventi: Concetti fondamentali» in William Gray, Frederick J. Duhl, Nicholas D. Rizzo (a cura di), Teoria generale dei sistemi e psichiatria, trad. it. L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1978, p. 75

8 James G. Miller, «Sistemi viventi: Concetti fondamentali», cit., p. 74: «Il tempo è la fondamentale quarta dimensione del continuo spazio-temporale. Il tempo è l’istante particolare in cui esiste una struttura».

9 A. E. Scheflen, Sistemi e psicosomatica, in Teoria generale dei sistemi e psichiatria, cit., pp. 172-183.

10 R. D. Laing e D. G. Cooper, Ragione e violenza, cit., p. 56.

11 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 448.

12 R. D. Laing e D. G. Cooper, Ragione e violenza, cit., p. 54

13 E. Weiss, Struttura e dinamica della mente umana, trad. it. M. Magnino, Raffaello Cortina Editore, 1996, p.33)

14 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 438.

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Agli albori della psicoanalisi infantile: gli animali mordaci di Melanie Klein

13 sabato Gen 2018

Posted by Tamara Sandrin in il gabinetto del dottor Codermatz

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di Rodrigo Codermatz

Articolo già pubblicato sul numero 28 di Liberazioni. Rivista di critica antispecista

Nel discorso di ogni giorno, processi metaforici non controllati scalzano di continuo il significato disperdendolo nell’esodo del significante come campo storico cosicché la nostra stessa esistenza è un continuo abbattimento del soggetto. Stesso destino spetta anche all’animale che entra ed esce dal nostro discorso letterario e, disperdendosi nel labirintico rifrarsi della Lingua, diviene spettro (nel doppio senso di fantasma e gradazione nominale), intangibile filo d’Arianna, scia, traccia inconsistente e irreale del corpo animale1. È una dispersione incontrollata e asservita storicamente all’uomo che, come nota Bataille2, relega altrove l’animale, lo biloca nel nascondimento anche quando ne vuole fare soggetto di arte e letteratura. In alcuni casi il processo non s’arresta alla perdita dell’animale ma costituisce e inaugura un allontanamento ideologico ulteriore e definitivo nella ricostituzione dell’animale come funzione ricompositiva dell’identità culturale.
Nella storia della prima psicoanalisi infantile è eloquente l’opera di Melanie Klein dove l’animale diviene Beisser, mostro, animale mordace pericoloso e crudele, dotato di unghie, artigli, mandibole e denti e assume importanza fondamentale perché, configurandosi come trasfigurazione fantastica delle figure genitoriali introiettate, costituisce la forma originaria e primordiale del Super-io. Klein parte dal presupposto che l’Io sia già presente, in forma rudimentale e privo di coesione, all’inizio della vita postnatale e sia dotato della conoscenza inconscia di un oggetto di bontà unica da cui avere massimo, immediato, illimitato e perenne soddisfacimento, il seno materno, che perciò esisterebbe, come eredità filogenetica e costituzionale, anche nei bambini allattati artificialmente. Questo sentimento innato del seno materno nasce forse dal legame fisico prenatale con la madre, come nostalgia universale di questo stato prenatale, e può essere espressione di un bisogno di idealizzazione che persiste anche in una situazione di allattamento felice e ottimale. Di conseguenza, un certo grado di frustrazione entra necessariamente a far parte del rapporto precoce del bambino con il seno, al quale si assommano poi le diverse frustrazioni concrete in quanto insoddisfacente, freddo, assente, non sincronizzato coi bisogni del neonato.
Inoltre, come sottolinea Jones, il bambino considera sempre la privazione orale come qualcosa che gli viene deliberatamente inflitta dalle persone che lo circondano: al seno inesauribile buono si sostituisce un seno avaro che tiene per sé, un seno cattivo che non fa altro che rafforzare l’angoscia del bambino inducendolo a odiare e invidiare il seno sentito come avaro e meschino. Il senso di vuoto interno e la mancata gratificazione orale sono il punto di partenza, secondo Glover, degli immaginari assalti alla madre che dà soddisfazione e poi la toglie, costituendosi così come pericolo pulsionale esterno da distruggere; l’idealizzazione del seno buono non fa che intensificare l’odio e la paura per il seno cattivo. In sostanza, ribadisce Klein, l’avidità, l’odio e l’angoscia persecutoria nonché l’invidia come espressione sadico-orale e sadico-anale di impulsi distruttivi verso il seno frustrante e non gratificante entrano decisamente in azione fin dalla nascita. Come avviene questo attacco fantastico e distruttivo verso il seno frustrante? Chi depriva e allontana il seno sono il padre e gli altri bambini immaginari: l’attacco distruttivo e persecutorio sarà quindi rivolto dapprima al seno, poi al grembo materno e ai bambini contenuti in esso, al pene paterno e agli stessi genitori congiunti nel coito.
Già Freud aveva affermato che i bambini hanno sin dall’inizio idee vaghe e confuse sul coito, sulla nascita, sulla vagina, il pene e l’ano; per Klein esiste un sapere inconscio filogenetico circa la scena primaria e lo scambio di piaceri orali tra i genitori: la figura parentale combinata è la fantasia del bambino secondo cui i genitori sono percepiti nell’atto di avere un rapporto sessuale in forma di lotta durante il quale si torturano ricorrendo ad ogni sorta di mezzo atto a provocare una mutua distruzione: denti, unghie, genitali, i loro stessi escrementi tramutati in armi pericolose, in animali minacciosi, in strumenti d’evirazione sadica. Il coito dei genitori appare al bambino come proiezione del proprio sadismo: «Il bambino – scrive Klein – in genere non disponendo di altre armi che i denti e le unghie usa come armi questi mezzi primitivi»3. A questi si aggiungano il pene mordace con le sue urine ustionanti e corrosive e l’ano con le sue feci esplosive, tutti elementi che evocano, nel bambino, un patrimonio innato e filogenetico di immagini di mostri, diavoli, streghe, maghi, animali feroci, belve dai denti aguzzi e artigli laceranti che probabilmente minacciavano la nostra vita in epoche preistoriche. L’animale, pertanto, diviene non solo simbolo inconscio ma fonte stessa del sadismo e suo organo esecutivo.
Nella prima fase di quella che Klein chiama posizione schizo-paranoide (primi 3-5 mesi di vita) definita anche stadio sadico orale, il piacere della suzione insoddisfatto e frustrato comporta l’emergere prepotente e precoce di un sadismo di tipo specificamente orale identificato con l’istinto di morte volto principalmente a derubare, guastare e distruggere il seno deprivante e, in seguito, l’interno stesso del corpo materno dove si annidano coloro che hanno allontanato il seno: il padre (il pene paterno) e gli altri bambini. Richard, nei suoi disegni, si identifica con il cacciatorpediniere Vampire che entra in collisione (coito) con la corazzata Rodney (madre)4.
Il bambino concentra i poteri distruttivi sul pene che diviene bestia feroce divoratrice e si trasforma in vampiro, in pipistrello, nel becco di un uccello orrendo che perfora e si inserisce nella madre per divorarla dall’interno, in un moscone che punge, in un cane avido, in denti. Richard stesso (Vampire) quando si arrabbia, desidera mordere, muove la mascella e digrigna i denti (ha morso la nurse e il suo cane Bobby), diviene avida stella marina piena di denti aguzzi che nasce dal grembo materno e lo divora da dentro. L’aggressione sadica vuole appropriarsi del contenuto del corpo materno, dei bambini, delle feci, ma soprattutto mira ad evirare il padre tagliandogli o strappandogli il pene a morsi per poi mangiarlo assieme alle feci, ai bambini e ai genitori-conigli cacciati e macellati; il pene paterno è per Richard uno scarafaggio spaventoso, un polipo con volto umano dalla carne deliziosa e buona da mangiare, proprio come quella del mostro dallo sguardo arrogante di Klein, un ragno, un U-boot, un salmone, un’aragosta.
Al sadismo orale iniziale si accompagna l’attacco con unghie, lunghi artigli, zanne taglienti: ci sono leopardi e tigri che sbranano e la nascita stessa è immaginata come sventramento del corpo materno per poter estrarre il bambino. Richard, insediatosi ormai all’interno della madre proprio come un’aquila chiusa in una giacca, sventra tanto il padre quanto la madre: li percuote, li squarcia con le unghie, li lacera, li taglia a pezzi, divora l’intera famiglia e la «faccenda grossa» (le feci). Le tendenze distruttive si associano insomma alla cosiddetta pulsione epistemofilica (Wisstrieb), la pulsione a perlustrare l’interno materno: il pene divoratore diviene occhio e orecchio che scandagliano la distruzione dentro il corpo materno e sondano i possibili pericoli: il corpo della madre è un libro che Richard esplora scavandolo con i denti e mangiandolo.
Il cannibalismo, che in un certo senso chiude questa prima fase nel punto massimo di sadismo, è avidità come introiezione e prelude a una seconda fase offensiva, lo stadio sadico uretrale anale e muscolare che potremmo invece interpretare come attività proiettiva, espulsione di oggetti interni cattivi che avvelenano il grembo e il corpo materno o lo distruggono schiacciandolo (gli elefanti espressione dell’impulso a calpestare e a schiacciare, Richard che salta sulla madre-brutto animale-pallone-gallina a cui si torce il collo). Gli escrementi diventano sostanze esplosive che bruciano, corrodono, guastano, e ancora armi di vario tipo, siluri, animali pericolosi e velenosi: nell’inconscio, latte materno, urina, sperma, vomito, lo stesso pene e il seno si identificano simmetricamente. Se l’avidità contraddistingue la fase sadica orale, qui potremmo parlare di invidia come avvelenamento del seno per danneggiare e distruggere la madre. Il sadismo anale-uretrale innesca, tuttavia, un circolo vizioso (invidia→attacchi aspri al seno→seno cattivo e non gratificante→odio→invidia) che danneggia la capacità di godere e intralcia il costituirsi e la strutturazione di un oggetto buono interno, base di uno sviluppo psichico sano.
Alla fine dell’attacco sadico l’interno della madre è tutto sporco e imbrattato: lei stessa è un porcile, un animale, lurida e pericolosa; anche il pene di Richard è ferito, è un pettirosso. Ma per il bambino, come sostiene Winnicott, vige la legge del taglione, occhio per occhio e dente per dente, e così le aggressioni inferte suscitano in lui l’angoscia di una ritorsione da parte dei genitori immaginariamente congiunti proporzionale alla modalità dell’attacco che egli stesso ha inferto loro nella fantasia. Questa angoscia della ritorsione, di essere divorato dagli stessi oggetti divorati, è all’origine della posizione paranoide: gli oggetti divorati diventano ora divoratori mostruosi e fantastici che rappresentano la pulsione di morte. Ed è su questa angoscia fondamentale che si fondano in realtà le angosce più antiche – quella dei genitori indissolubilmente uniti nel bambino e quella di venire mutilata dalla madre nella bambina – ma anche la stessa ipocondria e talune fobie, come ad esempio quella degli scassinatori notturni o dei ragni; l’educazione alla pulizia diventa la madre stessa che si riprende le feci e i bambini rubati.
La prima angoscia persecutoria è paura della ritorsione paterna, di essere mangiato dal padre come animale totemico, dal suo pene arma pericolosa e animale terribile che avvelena e divora, che evira. Il pene paterno eviratore è un cane, un serpente, una balena divorante, una lucertola, un’aragosta, l’“arma segreta” di Hitler, il grosso topo Göbbels, un coccodrillo: in Rita5 il pavor nocturnus e la fobia dei cani è paura della vendetta del pene pericoloso del padre (il suo piccolo orso di stoffa). Alla minaccia paterna si associa quella materna: la madre è un gigante, un brutto animale, un uccello orribile con il becco spalancato, avido e pericoloso; i seni sono chele di granchio che mordono, sono il pene paterno introdotto nel corpo materno e riemerso; la vagina è un’apertura minacciosa. La mamma-orribile uccello a becco aperto e il papà-mostro, fusi insieme e anneriti dalle feci cattive, attaccano Richard dall’interno (dopo che li ha già divorati), lo evirano e lo mangiano. Anche i bambini dentro la mamma si trasformano in topi, api e vespe per vendicarsi di Richard che li aveva attaccati quand’era geloso. Alla paura di essere vittima di una ritorsione orale si unisce l’angoscia di essere stritolato internamente come l’uomo bloccato per ore tra le zampe del toro nel caso D.6
Alla fine, speculare, abbiamo la ritorsione sadico anale-uretrale: le feci dei genitori come piccoli animali e parassiti, quali topi, ratti, mosche, pulci, entrano nell’ano e negli altri orifizi del corpo di Franz7 come conseguenza dei suoi attacchi sadico-anali contro il padre e la madre (deliri di persecuzione, di riferimento o avvelenamento). La mamma di Richard è l’oggetto orrendo divorante che lascia cadere le feci e la pioggia è l’urina dei suoi genitori che lo corrode proprio come egli stesso aveva desiderato fare con loro quand’erano a letto insieme: feci e urina sono il muco velenoso con cui li aveva attaccati. La posizione schizo-paranoide culmina, nel sogno di Richard, con l’isola in mezzo al fiume: cielo, alberi, persone, e creature di tutti i generi sono neri, immobili e terrificanti; ci sono poi due persone nude (figure parentali/scena primaria) i cui genitali assomigliano al mostro di Klein.8
Sono i genitori divorati e incorporati nella fase di sviluppo sadico-orale-cannibalica e trasformati poi in mostri vendicativi (Beisser) che vengono a costituire, secondo Klein, il nucleo originario del Super-io. Il Super-io nasce, quindi, in entrambi i sessi, dal seno materno e non è una figura genitoriale reale ma un derivato di imago di genitori, della loro configurazione fantastica introiettata come mostri estremamente vendicativi, pericolosi e crudeli. Il Beisser è un riflesso della nostra stessa aggressività e avidità dietro il quale si nasconde il seno nel suo sottrarsi, sottrarsi che prelude a una ripresentazione arrogante nella sua Mastofanìa e che ci rigetta nel terrore della nostra animalità del cieco mangiare ed essere mangiati, dello sporcarci ed essere lavati, del trasgredire ed essere aggrediti; è paura filogenetica di essere divorato identificata con la colpa d’aver-già-divorato, è l’accusa di cannibalismo – gli altri sono cannibali – come mito politico-letterario occidentale, di cui ci parla Arens, volto a gettare discredito sull’accusato, sul colonizzato, sul vinto, sul selvaggio incivile e animalesco9. È la colpa del “già” che si fa sentire (Es Gibt!) come silenzio all’orecchio di Heidegger, per dirla con Derrida10, e che “parla” dell’essere-gettato nel mondo che, perso il confine naturale del Sé, annaspa nell’aria, come direbbe Eugenio Gaddini, e inizia a pensare a ciò che gli manca: con la sua avidità apre la mancanza che ama sottrarsi e che appare come μαστὸς, Mastofanìa, manifestazione del seno materno come imago arcaica di perfezione assoluta. Nell’eclissi mastofanica il seno si concede come semplice rispecchiamento e riflesso della nostra avidità in quel circolo vizioso che Klein ha riconosciuto come la posizione schizo-paranoide, un vero e proprio incubo persecutorio di specchi che ci mette alle calcagna la nostra stessa animalità.
La posizione schizo-paranoide giocata come animalità nell’attacco avido al seno e la ritorsione speculare dei genitori-mostri (riconoscimento) è solamente una ferita, un’apertura dell’imago arcaica mastofanica che rimane sullo sfondo come inclusione, come estensione idealizzata del Sé grandioso, come totalità del Super-io, imago parentale idealizzata a cui tendiamo a identificarci. È qui che il Super-io perde l’aspetto mostruoso e si avvicina al modo di vedere dei “buoni e amati” genitori, del loro ambiente, della loro cultura. La ricomparsa di un seno complessivamente incolume e purtuttavia ancora ben disposto dietro l’animalità quale sua epifania non solo ci illude sulla riunione e integrazione definitiva, malgrado il danno infertogli dalla nostra fantasia, ma anche instaura e fa sorgere dal piano meramente ontologico dell’animalità schizo-paranoide la dimensione politica di un seno frainteso, non riconosciuto, un Cristo risorto sfigurato e un San Tommaso che ora si vergogna della sua mano, di non aver potuto credere senza aver prima toccato la ferita.
Questa è la posizione depressiva come sensazione reattiva di compassione11 nella quale, vergognandoci di essere stati miopi animali12, sentiamo di aver perso potere e valore e configuriamo il genitore come “sabotatore interno” e oggetto eccitante svalutante: ora il genitore ci appare come deluso e al contempo esigente e crudo persecutore che ci chiama a rimarginare la ferita che abbiamo aperto e a riassorbire sia l’animalità che abbiamo inoculato sia la nostra stessa animalità. Richard afferma di mordere Bobby solo per gioco, senza fargli del male, esattamente come Bobby stesso fa con il coniglio; inoltre promette di non dare più la caccia alla gallina e raffigura il padre come un cane che dimena la coda, un pesce che scodinzola e quando, nel suo sogno, è invitato a cena dai pesci si rifiuta di mangiare il polipo (il padre). Questo, tra l’altro, è un ennesimo punto di divergenza tra Klein e Freud: secondo la prima, il senso di colpa è collegato alle pulsioni distruttive e non alle pulsioni libidiche incestuose; apre il complesso edipico invece di chiuderlo.13 Con la posizione depressiva, afferma Klein, si passa dall’onnipotenza distruttiva all’onnipotenza costruttiva, all’impulso risanatore e riparatore che completa la maturazione psichica dell’individuo e permette l’instaurarsi del complesso edipico e della genitalità matura. Abbiamo fatto del predatore animalesco un padrone umano a cui ora noi ci subordiniamo con un duro lavoro di ricostruzione.
Che fine ha fatto il Beisser? Dove troveremo ora la muta del primitivo Super-io? Già nel primo stadio anale, scrive Klein, questo Super-io terrificante, genitore-mostro-mordace e castrante, viene espulso, esteriorizzato, proiettato su un animale reale, costituendo in tal modo il nucleo della fobia per taluni animali.14 Trasfigurazione dell’angoscia originaria, questa fobia si evolve in ripugnanza e in pulsioni distruttive verso gli oggetti della stessa che diventano la colpa, la traccia, il segnavia della nostra distruttività. Il genitore, ancora una volta, delega la sua figura inquisitoriale; in questo caso alle nostre angosce più profonde, ancestrali e filogenetiche15, proiettando la sua ombra fino all’età adulta tramite lo sviluppo di pregiudizi, ansie, paure e stereotipi. Alla fine anche l’animale, dopo tre giorni, resusciterà senza corpo e senza soggetto come subdola arma metaforica di persuasione.

Note:

1 Rodrigo Codermatz, Spectra. La struttura bi-logica dello specismo, Grado 2016.

2 Georges Bataille, «Il passaggio dall’animale all’uomo e la nascita dell’arte», in Aldilà del serio e altri saggi, trad. it. di C. Colletta e F. C. Papparo, Guida, Napoli 1998.

3 Melanie Klein, Scritti 1921-1958, trad. it. di A. Guglielmi, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 521.

4 Il piccolo Richard entrò in analisi con Klein a dieci anni nel 1941 in pieno periodo di guerra dopo che una forte paura degli altri bambini lo aveva portato pian piano ad inibire i suoi interessi e gettato in uno stato ipocondriaco e depressivo tale da impedirgli la frequenza scolastica. Seguiva purtuttavia con interesse e apprensione alla radio e sui giornali l’evolversi degli eventi bellici costruendo un immaginario che fu alla base della sua terapia analitica. Le novantatré sedute e i disegni di Richard sono state raccolte da Klein nel suo saggio (uscito postumo nel 1961) Analisi di un bambino, (trad. it. di Ferdinando Mazzone e Maria Serena Veggetti, Bollati Boringhieri Torino, 1971).

5  Melanie Klein, La psicoanalisi dei bambini, Giunti Editore Firenze, 2014, trad. it. Lyda Zaccaria Gairinger, p. 160. Rita era una paziente di due anni e nove mesi di Melanie Klein affetta da nevrosi ossessiva.

6  Melanie Klein, Scritti 1921-1958, p. 347 e segg. D. era un paziente sulla quarantina con forti tratti paranoidi e depressivi acuiti dalla morte della madre. Klein ne analizza un sogno parlando del lutto e della sua connessione con gli stati maniaco depressivi (1940).

7  Melanie Klein, La psicoanalisi dei bambini, cit., p. 345. Franz era un paziente di cinque anni, psicotico e con gravi difficoltà scolastiche.

8  Melanie Klein, Analisi di un bambino, cit., p. 446.

9 William E. Arens, Il mito del cannibale. Antropologia e antropofagia, trad. it. di S. Accatino, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 129.

10 Jacques Derrida, «L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia», trad. it. di G. Chiurazzi in La mano di Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 81-170.

11 Si sa bene a che livelli di dipendenza e plagio può portare la compassione a livello psicopatologico.

12 Karl Abraham fu il primo a dimostrare il nesso dell’angoscia e del senso di colpa con le pulsioni cannibaliche: i primi nascono dall’introiezione sadica-orale degli oggetti amati e generano depressione; possiamo dire quindi che la posizione paranoide è la base di quella depressiva: questa deriva da quella.

13  Melanie Klein, Scritti 1921-1958, cit., p. 399.

14  Melanie Klein, La psicoanalisi dei bambini, cit., pp. 218-219.

15 Secondo Klein, l’angoscia originaria rimane sempre in agguato e riemerge in tutte quelle situazioni che possono in qualche modo richiamarla.

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La distruzione dell’animale tra psicoanalisi e fantascienza*

12 martedì Dic 2017

Posted by Tamara Sandrin in Entr'acte, il gabinetto del dottor Codermatz

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Tag

antispecismo, fantascienza, Frances Tustin, George Bataille, Insetti giganti e alieni mostruosi, Melanie Klein, psicoanalisi infantile, Rodrigo Codermatz, Spectra, Tamara Sandrin, Veganesimo e famiglia

 

 di Tamara Sandrin e Rodrigo Codermatz

George Bataille scriveva a proposito dei dipinti della grotta di Lascaux:

“Ciò che gli affreschi mirabili annunciano con una forza giovanile non è soltanto il fatto che l’uomo che li ha dipinti smise di essere animale dipingendoli, ma anche smise di esserlo dando dell’animale e non di se stesso un’immagine poetica che ci seduce e ci appare sovrana”

e questa immagine poetica di cui parla Bataille segna l’intera storia del legame tra l’uomo e l’animale, storia di un allontanamento sempre più marcato sino all’impossibilità stessa dell’incontro, all’annullamento stesso dell’animale in carne ed ossa.
Lo sguardo umano, scrive Bataille, ha attraversato i corpi animali, li ha riprodotti nell’arte, nella pittura, nella letteratura iniziando una violenza inaudita nei loro riguardi.
Fatto ancor più grave questa “animalità” poetica non ha mai opposto alcuna resistenza all’interminabile processo di uccisione animale.
E’ questa la più massiva sparizione dell’animale: solo la sua immagine è sopravvissuta.
Anch’io ho parlato di questa sparizione e mise en abyme dell’animale che diviene Spectra, fantasmi, spettri, ombre disincarnate, che è scomposto e dissezionato come la luce bianca attraverso lo spettro in più colori dal voyerismo estetico del nostro occhio, dal suo narcisistico esibirsi attraverso il corpo dell’altro animale sovraccaricandolo delle passioni, delle emozioni, delle ansie e delle paure più profonde dell’uomo. L’animale diventa un canale d’informazione troppo carico che entra in distorsione e perde il messaggio per strada: l’animale crolla e soccombe sotto il carico metaforico a cui l’uomo, già dalle caverne di Lascaux e fino ai giorni nostri, lo costringe. Perché allora non sospendere ogni aspettativa significante nei suoi confronti, accoglierlo semplicemente nella sua aleatorietà come davanti il brusio e il rumore bianco di un televisore non sintonizzato?

In queste pagine Tamara ed io raccoglieremo alcuni frammenti di questa spettralità: frammenti in cui l’animale riveste le sembianze della nostra ansia e della nostra paura verso l’Altro, il diverso, l’ignoto, in cui l’animale diviene vittima della dialettica tra l’io come parte dell’altro e l’altro come totalità che si rende inafferrabile e nel contempo ci seduce, ci precipita nel voyeurismo e nella conseguente ossessione dell’essere spiati così presente come vedremo in tanti film di fantascienza e dell’horror.
L’animale che si veste della nostra paura dell’altro diviene mostro e, attingendo a quel bagaglio di immagini primordiali e archetipe che ci portiamo dentro filogeneticamente (Jung parla di facilitazioni ereditarie), ricompare imperterrito in ogni bambino e in ogni spettatore e fruitore di un genere cinematografico volto a riportarci alle nostre ansie e paure più profonde come per l’appunto la fantascienza. Hanno quindi un’origine comune questi mostri che, come ci mostrerà Tamara con alcuni spezzoni di film, si muovono tra psicoanalisi e fantascienza sempre uguali e riconoscibili.
Stasera vi parlerò di Melanie Klein che per prima, intorno agli anni Venti del secolo scorso, cito Ernest Jones, “ha portato la psicoanalisi nel cuore che fondamentalmente le compete, il cuore del bambino” (prima di lei c’era stata la dottoressa Hug-Hellmut che paragonò il gioco del bambino alle associazioni libere dell’adulto) poiché il mostro come animale mordace (Beisser) assume una peculiare centralità all’interno della sua personalissima e affascinante interpretazione delle dinamiche mentali del primo anno di vita del bambino fino a costituirsi come prima introiezione della figura genitoriale e quindi primo nucleo del Super-io.
I processi dinamici descritti dalla Klein nel loro evolversi nelle due posizioni quella schizo-paranoide e quella depressiva sono del tutto tipici ossia sono normali e presenti in tutti i bambini: solamente una loro fissazione, una regressione o il non risolversi della posizione depressiva nella formazione di un oggetto buono interno che possa infine instaurare una matura fase genitale possono comportare sviluppi atipici della vita psichica del bambino.
L’opera kleiniana è complessa, in molti punti disomogenea e sempre in fieri.
Ovviamente tenterò qui un quadro molto sommario e sincronico della sua teoria per gli aspetti che qui ci interessano in particolare a introduzione dei film che poi vedremo assieme a Tamara.

La teoria della Klein, con le sue immagini talvolta pesanti e disturbanti, può sembrare a taluni per certi aspetti forzata: vorrei dire che, al contrario, essa nasce da migliaia di sedute e colloqui con i bambini, dall’osservazione attenta e obiettiva del loro gioco, del loro comportamento, delle loro reazioni, fantasie, sogni e dai loro disegni (fra poco vedremo alcuni disegni tratti dal caso di Richard inclusi poi nel volume postumo Analisi di un bambino, 1961). Centinaia e centinaia di pagine supportano una teoria che ha aperto un’importante strada nella psicoanalisi infantile ispirando vari studiosi e dando alla luce nuovi e importantissimi indirizzi di ricerca: basti fare i nomi di Susan Isaacs, Paula Heimann, J. Rivière (prima generazione), H. Rosenfeld, Hanna Segal, Bion, M. Milner, R. Money-Kyrle (seconda generazione dopo la pubblicazione nel 1955 di New directions in psychoanalysis) e una terza generazione influenzata dal pensiero di Bion, Meltzer e la Bick. Ricordiamo ancora Frances Tustin di cui parleremo anche stasera e Franco Fornero, “ardente portavoce” dell’opera della Klein in Italia”.

Per la Klein l’Io, seppur incompleto e appena definito, è comunque già presente sin dalla nascita dotato tra l’altro della conoscenza inconscia di un oggetto di bontà unica da cui trarre massimo, immediato, illimitato e perenne soddisfacimento: il seno materno; un’eredità filogenetica e costituzionale che è presente in tutti i bambini anche in quelli allattati artificialmente. Questo sentimento innato del seno materno può essere nostalgia universale per lo stato pre-natale, per il Ganzfeld intrauterino come si direbbe in termini contemporanei.
A questo sentimento è associato un perenne stato di frustrazione costituzionale ma anche effettiva dovuta in un secondo tempo ad un ambiente più o meno favorevole.
Per Ernest Jones, in particolare, questo senso di frustrazione e di privazione orale sono vissuti dal bambino come deliberatamente infertigli da un seno che dapprima seduce con la sua promessa inesauribilità per poi ritrarsi con meschina avarizia.
Da qui il grande senso di vuoto vissuto dal bambino e l’originarsi, secondo Glover, di una forte invidia del seno accompagnata da immaginari assalti contro il seno e la madre che ora si configurano per il bambino come pericoli pulsionali esterni da distruggere.
Più il seno è idealizzato più violento sarà l’odio del bambino per il seno che si ritrae.
Oggi, dopo la teoria dell’attaccamento di Bowlby potremmo identificare il seno anche come madre che protegge ed il suo ritrarsi come abbandonare il cucciolo in balìa di altri animali feroci.
Per tutti questi aspetti potremmo ripensare alle immagini primordiali di cui ci parla Jung sin dalle prime pagine de L’Io e l’inconscio del 1916, alle sue categorie ereditarie come elementi collettivi dell’inconscio, a quelle forme universali del pensiero dotate di contenuto affettivo che definì archetipi e che compongono e strutturano l’inconscio collettivo.
Ma come avviene questo attacco verso il seno che si ritrae?
“Il bambino, scrive la Klein, non dispone che di denti e unghie e non ha che questi come armi” e anche qui potremmo pensare piuttosto a immagini archetipe del nostro lontano passato animale con tutto il suo patrimonio filogenetico di mostri, diavoli, streghe, maghi, animali feroci, belve dai denti aguzzi e artigli laceranti che ritroviamo poi in tutte le fiabe, miti, ecc.

A denti ed unghie si aggrega il pene mordace (che ricompare poi 40 anni dopo nel mostro di David in Frances Tustin come vedremo in seguito): siamo al cosiddetto stadio sadico orale (l’inizio della posizione schizo-paranoide che va dalla nascita sino ai 3/5 mesi del bambino) volto ad aggredire, distruggere e divorare dapprima il seno e poi il corpo e l’interno del grembo materno con tutti i peni paterni e i bambini che ivi si rintanano dopo aver rubato il seno dalla bocca del bambino: più peni paterni perché, nella teoria sessuale del bambino, ad ogni coito la madre incorpora e trattiene in sé un pene sempre diverso.

Il pene dentato che penetra nel corpo materno diventa occhio e orecchio che esplorano l’interno della madre (vedi periscopio del u-bot sunfish disegnato da Richard, disegno a fianco): è la pulsione epistemofilica (Wisstrieb) onnipresente nei film di fantascienza.
Una antica equiparazione tra occhio e pene la ritroviamo già in Francesco Bacone che definiva l’invidia “eiaculazione dell’occhio”.
In Frances Tustin la bocca e la lingua costituiscono la cavità primaria e la prima distinzione interno/esterno, penetrante/ricevente (mostri bisessuati): il capezzolo-lingua si allunga sul mondo e lo “porta dentro” (pene duro) e le stesse forme innate (che la Tustin definisce come espulsione di materia corporale simile a pseudopodi che si spingono fuori verso il mondo esterno modellandolo ed essendone modellati) sono la pulsione epistemofilica che va a costituire gli antecedenti corporei delle successive fantasie e pensieri: sono dei modelli flessibili, dei mostri, dice la Tustin come le bolle di saliva o le feci modellate.
Nel suo Autism and Childhhod Psychosis del 1972 (pag. 107) la Tustin sembra comprovare questa mia interpretazione quando scrive:

“Il termine kleiniano di fantasia inconscia è utile per definire i rudimentali ed elementari processi associati con quelle che sono state chiamate forme innate. Queste configurazioni sembrerebbero pure costituire gli archetipi delle formulazioni junghiane”.

Richard nel suo attacco al corpo materno si identifica col cacciatorpediniere che non a caso battezza Vampire, il suo stesso pene si trasforma in vampiro, in pipistrello, nel becco di un uccello orrendo che perfora e si inserisce nel grembo materno per divorarlo dall’interno, è un moscone che punge, un cane avido; Richard diviene una stella marina che con le sue punte aguzze nasce dal grembo materno e lo ferisce dall’interno provocando un’emorragia.

L’attacco poi viene inferto contro il padre che viene evirato a morsi, tagliato a pezzi e mangiato assieme alle feci ed gli altri bambini. Il pene paterno è per Richard un polipo dal volto umano, carne deliziosa da mangiare, un ragno, un u-boot, un salmone, un’aragosta.
Ai denti subentrano le unghie e gli artigli ed ecco allora leopardi, tigri, aquile etc.
Al sadismo orale e al cannibalismo come avidità e attività introiettiva subentra una seconda fase offensiva come attività proiettiva: il sadismo uretrale, anale e muscolare in cui l’invidia, subentrata all’avidità, vuole ora rovinare il seno innescando un ineluttabile circolo vizioso.
Ecco allora le urine ustionanti e corrosive e l’ano con le sue feci esplosive.
Espulsioni di liquidi e gas veleniferi, corrosivi e urticanti, siluri etc. deteriorano e rovinano il seno e il corpo materno: nel processo primario in cui queste fantasie prendono forma urina, sperma, latte, vomito, seno e pene si identificano, sono la stessa indistinguibile cosa.
È nel primissimo stadio anale (prima dei 3 mesi) che si ha il massimo di sadismo e l’insorgere di fobie animali .
Ralph, nella Tustin, si chiude nell’armadio e dice di essere un drago dal fiato pericoloso che brucia tutti i bambini all’interno dell’armadio-Tustin. Ralph parla anche del gorilla marrone che fa cadere i plops e la pipì sui bambini.
La figura parentale combinata, ossia la scena primaria del coito genitoriale diventa proiezione del suo sadismo e appare al bambino come una lotta all’ultimo sangue tra i genitori che adoperano tutti i mezzi a disposizione per distruggersi reciprocamente (dobbiamo considerare il tempo in cui la Klein scriveva: allora, a differenza di oggi, era molto frequente che i figli dormissero assieme ai genitori diventando così spettatori dei loro rapporti sessuali).
L’interno della madre, schiacciata infine da un elefante, è ridotto ad un porcile e anche il pene di Richard è ferito, è un pettirosso.

Ma nel bambino, come scrive Winnicott, vige la legge del taglione, occhio per occhio dente per dente, ed ora egli teme una ritorsione speculare al suo attacco da parte dei genitori: questa angoscia della ritorsione inaugura la posizione prettamente paranoide che è paura di essere divorati dagli stessi oggetti divorati; questi diventano ora mostruosi persecutori e in questa angoscia si radicano le paure primordiali, la paura di essere attaccato di genitori uniti (e non la paura della castrazione) nel bambino, la paura di essere evirata dalla madre e non di rimanere sola nella bambina.
Il pene paterno si trasforma così in cane mordace, in serpente, in balena divorante, nell’“arma segreta di Hitler”, nel papà-Hitler, nel grosso topo Goebbels, in coccodrillo: ad esempio nel caso di Rita il pavor nocturnus è paura dei cani come paura del pene paterno (il suo piccolo orsacchiotto di stoffa).
La madre diventa un gigante, un uccello orribile dal becco spaventato, avido e pericoloso; i suoi seni sono delle chele di granchio che mordono oppure il pene intrappolato nel corpo materno che ora tenta di riemergere. La vagina è un’apertura minacciosa.
Papà e mamma sono uniti assieme e anneriti dalle feci cattive e attaccano Richard dall’interno. I bambini all’interno della mamma diventano topi, api, vespe.
Speculare, infine, la ritorsione sadico-anale-uretrale e muscolare: le feci dei genitori sono ragni, ratti, mosche e pulci che entrano negli orifizi di Franz, sono bombe e le loro urine pioggia corrosiva. Nel caso di D. c’è la paura di essere stritolato tra le zampe di un toro.
come prima la madre era stata schiacciata da un elefante.
Nel caso di John analizzato dalla Tustin nel 1953 abbiamo le allucinazioni di di uccelli che minacciano di beccarlo (grossa fonte di terrore), bocche volanti, feci dure (fetenti) che sono un coccodrillo che tenta di mordergli il sedere e poi il brutto anatroccolo con i denti, l’oca senza becco, il seno-non-buono come seno-fuoco d’artificio con gli spunzoni fetenti come razzi (matite), la paura di cose a forma di pene.
Emblema del sadismo orale nella Tustin è il mostro di David (mostro-vulcano-foruncolo-tentacoli inturgidito da sostanze velenose, sugo di morte). (mostro di David)
In David le feci sono i “bravi bambini”.

La posizione schizo-paranoide culmina nel sogno di Richard dell’isola in mezzo al fiume: tutto è nero, immobile, terrificante ma ci sono due persone nude (scena primaria) sotto un lembo di cielo azzurro e i loro genitali sono dei mostri.

Sono proprio questi genitori divorati e poi rinati come divoratori e mostri vendicativi che vanno a costituire per la Klein il nucleo primitivo e originario del Super-io.
Il Super-io nasce quindi in entrambi i sessi dal seno materno non come figura genitoriale reale ma come configurazione fantastica di mostri estremamente vendicativi e crudeli.
L’emergenza del Super-io è notevolmente anticipata rispetto all’ortodossia freudiana al periodo pre-edipico.
Inoltre il senso di colpa, per la Klein, non consegue al complesso di Edipico in relazione alle pulsioni libidico-incestuose ma lo precede come senso di colpa per le proprie pulsioni distruttive sempre pre-edipiche (Karl Abraham fu il primo a dimostrare il nesso tra l’angoscia del senso di colpa e le pulsioni cannibaliche): in poche parole il senso di colpa apre il complesso edipico anziché chiuderlo.
Senso di colpa originato dal fatto che, il seno, seppur mutilato e trasfigurato fantasticamente, riemerge complessivamente incolume e ben disposto (potremmo qui pensare all’oggetto eccitante e all’Io sabotatore di Fairbarn): il bambino entra così in quella che la Klein definisce posizione depressiva (6 mesi- 1935 oggetto totale / 3-4 mesi – 1948 oggetto parziale).

Richard ora afferma di mordere Bobby il suo cane solo per scherzo e che anche Bobby morde il coniglio solo per gioco. Il pene paterno è ora un cane che dimena la coda, un pesce che scodinzola e quando nei sogni è invitato a cena dai pesci Richard si rifiuta di mangiare il polipo (il papà).
Dall’onnipotenza distruttiva pre-edipica si passa all’onnipotenza costruttiva della genitalità matura e l’emergere intorno ai 11-13 mesi di un proto Edipo nascosto e confuso con le fasi pregenitali: l’Edipo si risolverà intorno al 4/5 anno.
Che ne è infine del mostro? Dove troveremo la muta di questo primitivo Super-io?
Abbiamo visto che già nel primo stadio anale il genitore-mostro è espulso, esteriorizzato, proiettato su un animale reale e la Klein riprende i due più noti casi di fobia verso gli animali presenti in Freud, quello del piccolo Hans e dell’uomo dei lupi. In entrambi i casi la fobia dell’animale cela un’angoscia ben antecedente a quella di essere castrato dal genitore: cioè l’angoscia davanti ad un pericoloso animale divoratore generato dalla nostra stessa distruttività.
Come animalità e Super-io siano così strettamente legati ce lo dimostra una aneddoto che Karl Abraham raccontò di persona alla Klein: un giorno egli stava sfogliando assieme ad un piccolo parente di neanche un anno e mezzo un libro illustrato che gli stesso gli aveva portato in dono: ad un certa pagina c’era l’immagine di un maialino che raccomandava ad un bambino di essere pulito. Ebbene il piccolo ordinò subito ad Abraham di voltare pagina e non la volle mai più rivedere sebbene egli amasse molto quel libricino: “in quel momento, disse Abraham alla Klein, evidentemente il suo Super-io doveva essere un maiale”.
Vorrei fare ancora un parallelo con le analisi della Tustin:

quando il capezzolo-bottone non si con-forma alla forma innata diventa buco nero ossia cattiva puntura. Allora l’impatto della separazione corporea diventa ghiaia, sabbia (fenomeno di Isakower 1938), lava e sugo di morte (vedi il mostro di David nel disegno a fianco): ebbene questo sentimento di sabbia/ghiaia sulla pelle sembra il pelo ritto dell’animale davanti al pericolo.
Il buco nero (non-me) contiene entità minacciose, crudeli, demoniache: una sorgente di paure paranoiche; nel mondo interno per fortuna esiste anche un bottone benefico in modo superlativo che presiede ad un seno dei bambini. (F. Tustin, cit., pag.186).
Infine anche qui la metamorfosi da mostro a Super-io: in una bambina la mamma-buco-nero diviene severo poliziotto.

Prima di passare la parola a Tamara volevo giusto accennare a degli elementi che ritroviamo spesso nel cinema di fantascienza e dell’horror che ci parlano del nostro inconscio più profondo.
Innanzitutto il “perturbante” (al quale Freud dedicò uno scritto nel 1919) che si ripresenta in molteplici forme: forse la definizione più esatta di perturbante è quella di qualcosa di familiare che diviene inquietante e spaventoso; lo stesso Freud racconta che un giorno nel suo scompartimento durante un viaggio in treno, all’improvviso si è spalancata la porta del bagno e si trovò di fronte un uomo con la barba bianca che lo osservava: era la sua immagine riflessa in uno specchio.
Ma possiamo trovare il perturbante come il doppio (Gli Elisir del Diavolo di Hoffmann); Otto Rank nella sua monografia dedicata al doppio ci dà diversi esempi letterari del manifestarsi del doppio come riflesso nello specchio, ombra, incontro col proprio fantasma etc.
Perturbante è anche il ripetersi della stessa scena (cfr. la coazione a ripetere in Al di là del principio di piacere di Freud) o quando si dice una cosa e questa accade poco dopo (onnipotenza del pensiero, animismo, ciò che stimola residui animisti in noi, cfr. Totem e tabù di Freud), uno stato affettivo rimosso che si ripresenta, membri tagliati del corpo (castrazione), la paura essere sepolto vivo (fantasia esistenza intrauterina) e quando non si distingue più la realtà dalla fantasia.
In secondo luogo: prima ho parlato di processo primario che identifica urina, sperma, latte, vomito, pene e seno.
Freud nomina “processo primario” il modo di funzionare dell’inconscio e, in diversi scritti tra i quali Le nuove lezioni introduttive del 1933, L’Inconscio del 1915 e il 7° capitolo de L’interpretazione dei sogni del 1900 ne definisce le caratteristiche dinamiche e generali che presiedono a tale funzionamento.
L’esempio più emblematico di processo primario che esperiamo quotidianamente è il sogno: ma non dimentichiamo che, e molta arte come ad esempio certo cinema come la fantascienza e l’horror ma non solo ce lo testimoniano, il processo primario e quindi l’Inconscio riaffiorano anche nelle situazioni-limite di paura, panico, angoscia e ansia e per questo ora ve ne parlo.
Le caratteristiche dinamiche dell’Inconscio sono la condensazione (Verdichtung) e lo spostamento (Verschiebung): la prima tecnicamente è definita come la capacità di un quantum di energia per ragioni economiche di inglobare più di un contenuto. Matte Blanco lo definisce principio di generalizzazione per cui l’inconscio preferisce operare a livelli sempre più comprensivi di astrazione assommando il quantum qualitativo e quantitativo che ogni dimensione si porta dietro. È praticamente la funzione metaforica o simbolica che identifica elementi e classe di appartenenza in un movimento astrattivo, proposizionale. Così, ad esempio, nel sogno nella classe “padre” posso inserirci il padre biologico, il padre spirituale, il parroco, etc. e questi poi nel sogno si identificheranno.
Nello spostamento, invece, l’energia passa da un contenuto all’altro per somiglianza e contemporaneità: l’energia passa da A in B se A è simile a B e da B a C se c’è contemporaneità di registrazione tra B e C. C’è una tendenza estremamente facile allo spostamento di questa energia in maniera fluida e molto rapida. È la funzione metonimica che opera anche come censura e direziona il senso di significazione.
Tra le caratteristiche generali del processo primario ricordiamo l’atemporalità, nell’Inocnscio non esiste il tempo, né la durata, né la successione (anche spaziale): nello stesso tempo posso trovarmi a Gorizia ma anche a Parigi; l’assenza di contraddizione, nell’Inconscio non esiste la negazione, né la contraddizione : gli opposti si identificano, c’è solo l’et-et.
Nell’Inconscio vige la realtà psichica ossia l’Inconscio non è in grado di distinguere se il ricordo di un soddisfacimento è il ricordo di un fatto realmente accaduto o se è il ricordo di una fantasia di desiderio. Infine c’è l’assenza del principio di realtà.

Così, per quanto riguarda il tema di stasera, nella fantascienza come nell’horror abbiamo le mutazioni, l’ibridismo l’ingrandimento e l’esagerazione sia della paura che della minaccia, la sua moltiplicazione e diffusione capillare (varie invasioni), l’infinito spaziale e temporale, la negazione dell’impossibile, della logica, di ogni legge scientifica, l’annullamento del tempo (dinosauri che ritornano a vivere milioni di anni dopo) e dello spazio (attacchi dallo spazio, da altre galassie, pianeti alieni simili alla Terra). Il pericolo o l’oggetto che ci intimorisce ingigantisce, si moltiplica, si riproduce, è onnipresente e onnipotente, è invadente e incontenibile: travalica la realtà.
In Spectra, proseguendo un po’ il lavoro iniziato in Veganesimo e famiglia, descrivo e analizzo come il processo primario entra in funzione anche nel dialogo e nel confronto tra antispecista e main-stream specista e onnivora: la denuncia e l’argomentazione antispecista va infatti a minacciare la sicurezza interpersonale generando situazioni di forte ansia in cui spesso vediamo all’opera i processi primari descritti sopra.

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“L’animale” come oggetto transizionale

11 domenica Giu 2017

Posted by Tamara Sandrin in il gabinetto del dottor Codermatz

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animale-giocattolo, animali, antispecismo, consumismo, Donald Meltzer, Donald W. Winnicott, Erik Erikson, famiglia, gioco, Infanzia e società, Liberazioni, oggetto transizionale, psicoanalisi, psicoanalisi infantile, psicologia dello sviluppo, psicologia infantile, relazione anaclitica, relazione d'oggetto, relazione genitori-figli, relazione oggettuale, Rodrigo Codermatz, società, violenza infantile

di Rodrigo Codermatz

Articolo già pubblicato in Liberazioni, anno VI, Primavera 2016 (pdf scaricabile qui)

La nostra società tende a rappresentare la violenza sugli animali utilizzando un linguaggio caricaturale: eventi culinari e attività commerciali pubblicizzano i loro prodotti servendosi di immagini che falsificano gli animali, li reificano ridicolizzando la loro sottomissione alla logica criminale del sistema, la loro sofferenza, la loro morte; li dipinge come coloro che si sacrificano, si immolano per noi in una sorta di esemplare manifestazione totemica. Disegnati come personaggi di fumetti, armati di coltello e forchetta e pronti ad affettarsi e a mangiarsi, ci danno il benvenuto all’entrata dei ristoranti ammiccando ad un immaginario infantile1.
Questo ci spinge a domandarci se l’infanzia sia davvero così proverbialmente empatica verso gli animali o, ammesso che originariamente lo fosse, che cosa accade ad un certo punto per cui tale trasporto emotivo si incrina per fissarsi il più delle volte in una completa miopia verso la sofferenza animale assumendo quell’atteggiamento culturale che caratterizza la nostra età matura in tutti i suoi aspetti. Qual è il nodo che rimane da sbrogliare nella nostra infanzia, qual è il fulcro su cui la politica dell’immagine e il marketing giocano le proprie carte? Perché parlano ai consumatori come fossero
bambini?
L’esperienza de “l’animale” in tutte le sue forme è un vissuto infantile e fa parte del reiterarsi di una situazione fondamentale originaria nella quale solitamente il genitore/ambiente-facilitante, che ama eppure uccide e si nutre degli animali, stringe con il bambino il tacito accordo di non porsi domande su di loro. Gli animali sono consegnati “nelle sue mani”, da un lato riconoscendo l’esistenza di un mondo soggettivo in cui sono oggetto di empatia e tenerezza e dall’altro confidando nel fatto che il bambino per il momento non farà irruzione nella realtà oggettiva, parallela e condivisa con la comunità adulta nella quale gli animali si usano e si uccidono. Il genitore “gioca sporco”: proferendo una menzogna, o più semplicemente sottacendo la verità, si mantiene in una posizione ambigua; con il suo segnale equivoco, il suo tacere contrastante e paradossale apre lo spazio di una realtà insincera, un’illusione grazie alla quale gli animali sono allontanati, non vengono presentati nella loro condizione reale, sono tenuti a distanza, esclusi, resi, se non invisibili, per lo meno prospetticamente piccoli e confusi, definitivamente “fuori fuoco”.
In questo senso si potrebbe parlare di una vera e propria
esperienza o fenomeno transizionale2 per cui questa comunicazione sospesa, questo “tacito accordo“ tra genitori e figli, questo “territorio di nessuno” permette al bambino di spostarsi verso la realtà oggettiva della collettività senza essere particolarmente traumatizzato e al genitore di mettere in relazione le due realtà, quella “soggettiva” del bambino e quella “oggettiva” della collettività poiché, come sosteneva Winnicott3, il compito di accettazione della realtà non è mai completo e nessun umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con il mondo esterno. In questo “spazio potenziale”, il genitore può, ad esempio, portare la domenica il “bambinetto” alla vicina fattoria didattica a vedere e a dare da mangiare al maialino e la sera stessa metterglielo nel piatto.
Questa presentazione “confusa” dell’animale, questa “distorsione paratassica”, questo territorio intermedio tra realtà psichica del bambino e realtà oggettiva del genitore/ambiente-facilitante si fissa per sempre nella nostra esistenza. E tale presentazione si fa sempre più forte, collettiva e sociale, si istituzionalizza e diventa “campo culturale”; grazie ad essa l’individuo umano e gli altri animali vengono posti
stand by, in una situazione o esperienza transizionale perpetua, diacronica e acronologica. La nostra infanzia diviene in tal modo asilo per lo sfruttamento e la sofferenza animale: gli animali, ai quali nella realtà è negato un effettivo spazio vitale, vengono introdotti nel nido del cucciolo umano, per partecipare a quella che spesso è un’isola di sicurezza e di onnipotenza.
Nel
C’era una volta…, il genitore, una volta e per sempre, sostituisce alla presentazione del volto reale degli animali un atto mitologico che li riconsegna come abominevole precipitato di animale-peluche, animale-cartone animato, animale-giocattolo da catturare e detenere in nidi, casette, ripari, gabbie per esercitare al contempo cura e dominio. Gli animali vengono riconsegnati come addomesticabili e allevabili, come strumenti di divertimento, come oggetti educativi o artistici, come cibo, abito, arredo. Come abusabili, torturabili ed eliminabili. A metà strada tra fantasia e realtà, gli animali divengono un vero e proprio “oggetto transizionale”, entità prettamente culturali, trasmutazioni ideologiche della realtà, illusioni collettive, “invenzioni” che, al pari della religione e dell’arte, godono di una certa immunità e apoditticità. “Territorio di nessuno”, l’esperienza dell’animale non rimanda ad alcuna assunzione di responsabilità: nessuno, nel-mondo, è responsabile di ciò che accade agli animali.
Questa incompletezza rende l’animale un mostro – non è forse l’incompletezza la caratteristica primaria della mostruosità? –, sfigurato dalla prepotenza e dall’invadenza concesseci a suo tempo dal “gioco” connivente del genitore. In quanto creatura mostruosa, “l’animale” si configura come oggetto-cattivo, oggetto frustrante, traccia della nostra diserzione dalla situazione reale di ogni animale che soffre e che muore.
‘ Il nostro bisogno di eludere l’animale come oggetto-cattivo e il senso di colpa che ne consegue definiscono l’esperienza transizionale come un vero e proprio processo simbolico in cui l’animale-oggetto transizionale funge da sostituto materno, da rinvio ad un seno-gabinetto4, inteso come un complesso di cure materne capace di accogliere e contenere le nostre proiezioni dell’animale-oggetto cattivo e l’angoscia che deriva dalla nostra capacità di amare e nello stesso tempo mangiare gli animali.
A detenere la funzione di
seno-gabinetto è la collettività, il gruppo colluso e coeso attorno all’“animale” distorto, allucinato, riprodotto come oggetto da dominare, da sottomettere e da sfruttare. La collettività è sicurezza interpersonale, medesimo bagaglio induttivo, comunità interpretante coerente, mente collettiva proiettata. L’oggetto transizionale è la prima esperienza collettiva ed è proprio nel gruppo che la socialità conferisce carattere totemico alla stessa esperienza dell’animale visto come sacrificio da consumare collettivamente ed autosacrificio da rappresentare su manifesti ed insegne. Qui mucche, maiali e pesci ammiccanti si mutilano e si affettano… Portato all’estremo, il totemismo diviene auto-sacrificio della divinità che si offre alla collettività. Il seno-gabinetto è consenso e approvazione che accoglie e metabolizza angoscia e senso di colpa che generano l’oggetto-cattivo, li omologa e li normalizza, li rende ‘naturali’, necessari e tautologici, e alla fine ci restituisce l’animale come oggetto-buono, non più ansiogeno, anzi “nutritivo”.
“L’animale” come “oggetto transizionale”, in questa sua funzione di difesa contro l’angoscia, possiede effettivamente qualità materne, nonché la predisposizione a creare, al pari di ogni oggetto di consumo, omologazione e mantenimento di confronti e relazioni stabilizzate all’interno del gruppo, uno stato di dipendenza e falso bisogno. É nel divenire oggetto transizionale che gli animali iniziano ad essere reificati. La funzione anaclitica del
gruppo seno-gabinetto introiettata in noi è la pelle intesa come bisogno di sicurezza, come vissuto “di essere contenuti”, vissuto che ci consente di relazionarci in modo ambiguo e integrato con gli animali facendo sì che ogni nostro possibile rapporto con loro sia di fatto accettato, condiviso, sanzionato e normalizzato.5
Questa situazione integrata è lo spazio claustrofobico dell’“animale” allucinato, della distorsione paratassica, ed è chiaro che tale claustrofobia e impossibilità di spazio non potrà che assumere i toni dell’immaginario e del vocabolario infantile. Introiettando la funzione accuditiva materna come “primo soccorritore”, iniziamo ad attribuire “valore” e “significato” al mondo in modo che la madre vi acceda come prevedibilità, attendibilità, affidabilità e familiarità: questa fiducia nell’attendibilità della madre è gioco che, per usare le parole di Winnicott, non è una questione di realtà interna – un’allucinazione – o una questione di realtà esterna; non è né al di dentro né al di fuori, ma si situa in quest’area transizionale, in questo spazio potenziale tra individuo e ambiente, tra il bambino e la madre, che è di fatto esperienza culturale; è quell’attività psichica, quell’atteggiamento per cui “si fa finta di”: Continua a leggere →

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