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Smouldering Fires

27 martedì Nov 2018

Posted by Tamara Sandrin in Entr'acte

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cinema muto, Clarence Brown, John M. Stahl, Le giornate del cinema muto, Pordenone, Rodrigo Codermatz

di Rodrigo Codermatz

Smouldering Fires di Clarence Brown del 1925 non è affatto un film femminista, e nemmeno proto-femminista, nonostante possa sembrarlo a uno sguardo superficiale e poco avvezzo all’interdisciplinarietà, all’intersezionalità e ai gender studies.
Jane Vail (Pauline Federick) è una donna manager, una “donna di ferro” (come la descrive la sceneggiatura) che ha ereditato dal padre la direzione di una grossa industria. Indossa castigati
tailleurs, la cravatta e i capelli raccolti , è priva di femminilità, per niente attraente, fredda e rigida col personale: è un vero capo, simbolo del successo, del progresso, dell’organizzazione, dell’efficienza; l’unico rapporto umano che sembra avere è quelo con il vecchio segretario del padre ancora in attività e ora suo segretario personale (Tully Marshall) che ha la semplice funzione di rimarcare costantemente la sua posizione di potere e di autorità metaforizzata dalla matita-pene che lei di continuo chiede in prestito al vecchio segretario (=tradizione=Padre=efficienza) come una reiterata consegna di autorità paterna e maschile e poi fa sparire inconsciamente (coito) nel taschino della sua giacca (rifornimento paterno-maschile). Penna che lei usa per bocciare con un grande “NO” tutte le proposte del consiglio di amministrazione (tutti maschi) o per sanzionare infrazioni comportamentali dei dipendenti.
Il quadro cambia però quando un bel giorno il giovane e ambizioso Robert (Malcom McGregor) in sede di consiglio la contraddice: questa volta, chiesta in prestito la solita matita al vecchio segretario per l’inesorabile sanzione, Jane si blocca, pensa un po’ e poi firma invece un aumento di stipendio; prende la matita-pene e si accorge che è ridotta ad un mozzicone inservibile (impotenza-castrazione) che questa volta, consciamente, non incorpora, non possiede, non lo mette nel suo taschino-vagina ma lo restituisce con sprezzo al vecchio. È la svolta della storia e della vita di Jane: nel rifiutare il piccolo pene lei è già donna e cade innamorata nelle braccia del giovane Robert.
Inizia così la distruzione dell’immagine della donna manager, autonoma, emancipata, efficiente.
L’innamoramento innesca le prime attenzioni “femminili” seppur represse di Jane per il suo aspetto (vanità) ed è il primo passo per relegare la donna al posto che la società sessista le riserva: la donna non può che innamorarsi e rendersi bella e attraente.
Il secondo passo è quello di renderla vittima di pettegolezzo amoroso, una dimensione tipicamente femminile per la cultura maschilista (quando indagini psicologiche molto recenti ci confermano precisamente il contrario).
Ma qui l’operazione ideologica si fa molto interessante: non si tratta, infatti, di limitarsi a trasformare semplicemente una donna-maschio in femmina per estrometterla; questo non spiegherebbe affatto come una femmina abbia mai avuto un ruolo e un’autorità che
di natura spetta al maschio. Bisogna andare oltre e negare in toto la femminilità di Jane.
Inizia un percorso a ritroso e Robert dapprima sventa e sottrae Jane al pettegolezzo proclamando ad alta voce che lei sarà sua moglie. Un tempo Jane non sarebbe mai stata oggetto di altro pettegolezzo se non quello che la considerava una zitella intrattabile e assessuata.
Quindi la donna-manager è principalmente assessuata, una non-donna fisiologicamente, deprivata di ogni capacità emotiva, un automa, un robot. La femminilità come tratto sessuale e genitale è la prima amputazione e sacrificio che la donna deve subire in cambio di una carica direzionale in una società volta alla produttività.
Jane e Robert si sposano.
L’improvviso comparire in scena di Dorothy (Laura La Plante), sorella minore di Jane e di molti anni più giovane, una figlia più che una sorella, funge da catalizzatore e potenzia la reazione già innescata; Dorothy è subito sbalordita dal divario di età tra Jane e Robert e pensa subito che questi miri ad un matrimonio d’interesse. Jane inizia a cadere in un vortice di femminilità stereotipata che la depotenzia repentinamente e la rende impotente, in balia degli eventi, debole, incerta quando si sente ormai vecchia, quasi una mamma per Robert: durante una gita in campagna, non riesce più neppure a scalare la vetta e lascia che Robert e Dorothy proseguino da soli per ritirarsi in cucina a preparare una torta dimostrando una totale estraneità e incapacità al mondo femminile: Jane non è più un “uomo” ma neanche ancora una donna; siamo alla completa estinzione e negazione di genere. Appare chiaro da subito che il matrimonio è segnato da un’astinenza sessuale per il divario d’età che diviene per Jane un’idea ossessiva, un pensiero pervasivo, persecutorio che, per forza di cose la riduce all’unica femminilità fisiologica concessale, quella della madre (durante la festa solo un ragazzino le chiede di ballare).
In cima alla vetta, Robert e Dorothy si baciano iniziando la loro segreta storia d’amore.
Nella scena topica del film, Jane intravvede Dorothy distesa sul letto che piange: Jane entra nella camera della sorella, la abbraccia e capisce subito che Dorothy è innamorata; la consola come una madre stringendola a sé come una bambina. Ma Dorothy piange perché è soffocata dal suo segreto, dal rimorso dell’affronto e tradimento che le sta inferendo.
Lo spettatore si chiede ora cosa mai succederà. Usando l’ottimo
escamotage del riflesso nel vetro il regista ci svela come Jane intuisce tutto ma tace e accetta il destino di mettersi da parte: la donna si alza in piedi, si avvia alla finestra aperta e vede Robert che passeggia in giardino e dice alla sorella che praticamente dovrebbe trovarsi anche lei un uomo come Robert e in quel mentre vede nel riflesso del vetro la sorella sobbalzare.
Si instaura allora una dimensione incestuoso-edipica che spesso troviamo come soluzione narrativa a poco prezzo di certo cinema americano: Robert-bambino che desidera Jane-donna-madre per spodestare il Padre Jane-maschio-manager, la madre che desidera il figlio, la figlia che desidera il padre, fratello e sorella che si desiderano reciprocamente.
L’epilogo ha luogo durante il compleanno di Dorothy: le due sorelle, Robert e il vecchio segretario amico di famiglia sono seduti attorno alla torta; Jane indossa un cappello a punta da pagliaccio metafora dell’ascesa al potere, la piramide gerarchica che ora la schiaccia.
Al momento della consegna dei regali, Jane finge di aver dimenticato il suo regalo in camera sua e manda i giovani al piano di sopra (ascesa sociale=vittoria) a recuperarlo per rimanere un momento da sola col vecchio segretario, con l’unico simulacro che le è rimasto del suo vecchio mondo; ma il vecchio (nella straordinaria interpretazione di Tully Marshall) piange stigmatizzando la detronizzazione ed espulsione di Jane sia dal suo ruolo “maschile” (manager) che da quello femminile (moglie). Jane è stata definitivamente annientata, è solo un pagliaccio in lacrime: per stato di cose naturali e non solamente caratteriali non ci sarà mai la possibilità che una donna assurga all’autonomia, al potere, al comando. Lontano, al piano di sopra, bisbigli amorosi tra Dorothy e Robert, convalidano la certezza di Jane.

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John M. Stahl, moralismi e stereotipi femminili

22 giovedì Nov 2018

Posted by Tamara Sandrin in Entr'acte

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cinema muto, John M. Stahl, Le giornate del cinema muto, Pordenone, Rodrigo Codermatz

Cinque film di John M. Stahl

di Rodrigo Codermatz

The Song of Life (1922) si apre con la visione di una misera capanna dispersa nel deserto e sferzata dal vento e dalla polvere e di una giovane donna, Mary (Georgia Woodthorpe), che lava i piatti: la solitudine e l’isolamento della capanna vengono di tanto in tanto rotti dal rientro del marito che lavora presso la ferrovia e da parche inquadrature del figlioletto di pochi mesi che si dimena sul divano o nella culla. Ma il tutto crea una zona molto compatta di monotonia autistica intorno al lavare i piatti che diviene in pochi fotogrammi una realtà compulsiva che atterra la donna e la porta all’atto disperato di salire sul primo treno abbandonando casa, marito e il piccolo figlio alla ricerca della vita mondana, di gingilli e piaceri che il deserto non le avrebbe mai dato.
Ma il castigo del peccato originale piomba inesorabile da un preciso e puntuale ordine deterministico di stampo ottocentesco, di stampo naturalistico (cfr. Zola) e realista che ben si presta come scheletro dell’ideologia (il determinismo è sempre l’anima dell’ideologia e del controllo da parte del potere): era suo destino lavare i piatti e infatti ritroviamo d’un tratto Mary, invecchiata e stremata, che fa la lavapiatti in un ristorante di una squallida Lower East Side. Mary ha fallito, non ha mai trovato ciò che cercava, e qualcuno l’ha riportata di forza al suo posto, quello della mamma, della moglie, della casalinga, un automa che non può permettersi sogni, desideri, velleità, fantasie, ambizioni. La fuga in treno è stata inutile e tutta la sua vita è stata il mero eterno ritorno dell’espiare la sua antica colpa, quella di aver cercato la vita, l’autonomia, l’emancipazione, il vero amore che non sia un semplice contratto domestico di sostentamento reciproco nelle più basiche funzioni vitali quali il mangiare, il dormire, il procrearsi che spesso tutt’oggi gravano maggiormente sulla donna.
Lo stesso giorno che Mary abbandona casa, il marito, tentando di inseguirla, muore travolto dal treno, dal simbolo di libertà (cfr. Possessed di Clarence Brown del 1931 con Joan Crawford); il bambino è preso in adozione non si sa da chi rendendo vano ogni tentativo di Mary per ricongiungersi al figlioletto ma questo è rivelato solo alla fine del film, tanto che per tutto il tempo lo spettatore è spinto, tra le righe, a condannare la madre che ha dimenticato completamente il bambino: e questa è una sottile manovra ideologica che vuole passare il messaggio -autonomia ed emancipazione femminile = snaturatezza-.
Mary, disperata per aver perso il suo misero lavoro e sotto sfratto, tenta il suicidio con il veleno ma la boccetta cade in terra e il veleno gocciola sul tavolo dell’inquilino del piano di sotto, David, un giovane scrittore che scopriremo essere proprio il figlioletto abbandonato, con l’assurda e fantascientifica coincidenza e improbabilità degna delle miglior pagine di un Paul Auster. Lo scrittore sale furiosamente le scale e blocca l’insano gesto della vecchia.
A questo punto un altro scherzo del destino ai danni della povera anziana che si inserisce in una vera e propria crisi familiare: David non vuole assolutamente che la sua giovane sposa Aline (Grace Darmond) lavori e pensa che la pubblicazione del suo nuovo romanzo sulla storia di una madre che abbandona il figlio (sic!) basti al loro sostentamento; Aline, invece, è innamorata del suo lavoro (suona il pianoforte in un negozio di dischi) perché le permette di realizzare in autonomia gli stessi sogni della vecchia Maria: può comprarsi dei nuovi ed eleganti cappellini.
Nel culmine della discussione tra gli sposini, Davide ha un’intuizione risolutiva di compromesso: perché non prendere la vecchia in casa e farle lavare i piatti? Così Aline può lavorare, comprarsi i cappellini e la casa sarà linda e pulita.
La vita scorre tranquilla e soddisfacente. David potrebbe, per età, essere suo figlio: Mary fissa le scarpe di David, rivede le scarpette del suo bambino e rinasce in lei un senso materno verso il giovane scrittore.
Ma un giorno David racconta la sua storia a Mary riservando una dura e rabbiosa condanna alla madre snaturata che l’ha abbandonato in una capanna nel deserto, causato la morte del padre travolto dal treno e che non l’ha mai più cercato.
Mary riconosce il figlio e, distrutta dalla colpa e dalla vergogna, decide di tenersi il suo segreto e il suo lavare i piatti diviene ora la sua vera espiazione, l’occasione di ricominciare da dove era iniziata la sua “perdizione” come madre.
Aline, ovviamente, è destinata alla caduta perché comunque non si confà all’immagine e al clichè della moglie-casalinga e c’è qualcuno che lava i piatti per lei: infatti trova uno spasimante l’amante che, guarda a caso in una sconfinata New York, è l’editore stesso di David.
David se ne accorge proprio quando, convocato dall’editore per alcune modifiche al romanzo (la figura materna di Mary non sarebbe stata convincente agli occhi dei grandi lettori), scorge sulla sua scrivania una bella foto di Aline.
David, fuori di senno, ritorna dall’editore e lo minaccia con la pistola: nel tafferuglio parte un colpo che atterra l’editore: nel contempo sopraggiunge la vecchia madre che, davanti alla polizia accorsa sul luogo, si accolla il delitto, ultimo gesto riparatore della sua colpa verso il figlio.
Ma il commissario non è convinto: manca il movente. È a questo punto che avviene la rivelazione: -io sono sua madre!- dice la vecchia abbracciando il figlio; ma un foro di proiettile sul suo polsino la discolpa definitivamente: se è stata lei a sparare come può il proiettile aver trapassato il polsino?
Anche il suo ultimo gesto riparatore fallisce.
A questo punto, lo spettatore sbigottito non riesce a immaginarsi una soluzione rapida della trama che però puntualmente arriva: David è preso in custodia e sta per essere condotto via quando giunge una telefonata che avverte che l’editore era solo leggermente ferito e che ritirava ogni denuncia nei confronti di David. Il teatro si riempie di risa.
Il finale è un’apoteosi ideologica ed è facilmente prevedibile: il “e vissero felici e contenti” si riassume col primo piano di Aline che toglie il grembiule alla ritrovata suocera, lo indossa e si mette a lavare i piatti.
Restaurazione della figura materna, della famigliola borghese, della moglie sottomessa e serva devota che esiste solo come aurea della figura maritale.
David ha rimesso le cose a posto e merita il plauso unanime e compiacente del pubblico: ha risaldato il filo trans-generazionale che lega la madre alla moglie, il destino ineluttabile della donna, quello di lavare piatti. In un eterno ritorno David incorpora l’autoaffermazione di suo padre segnando il destino della moglie che però qui, alla fine, è vistosamente manomesso proprio per servire l’ideologia dominante del sistema capitalistico e consumistico.
La donna questa volta non fugge perché è lei stessa incatenata dalla medesima dimensione metanarrativa della trama.

Questi due aspetti che mi hanno colpito in The Song of Life, l’assurda e fantascientifica coincidenza e improbabilità – che noi contemporanei potremmo definire “austeriana” – e il fugace e timido affacciarsi a tematiche proto-femministe per cadere poi nella più insidiosa ideologia sessista reazionaria, ritornano pedissequi anche in altre pellicole di Stahl presentate alle Giornate.

Per il primo aspetto. In Sowing the Wind del 1921 Rosamund (Anita Stewart) un’orfana collegiale giunge in città in visita inaspettata dalla zia, Baby Brabant (Myrtle Stedman), che in realtà assieme a Petworth (Josef Swickard) gestisce una casa di gioco e di piacere (Il palazzao della fortuna). Delusa dalla zia, Rosamund fugge e inizia una carriera teatrale che la porterà al grande successo. Intanto Baby Brabant si sente in colpa, interrompe bruscamente ogni rapporto con Petworth, lascia il Palazzo della fortuna e diventa un’oppiomane iniziando un drammatico decadimento. Rosamund nel frattempo si innamora di Ned (James Morrison) figlio adottivo del ricco Brabazon che però non accetta che il figliastro sposi una donna di teatro: anche lui ne aveva sposata una che l’aveva poi abbondonato. Nel frattempo Rosamund scopre che la zia è in verità sua madre.
Alla fine, dopo una tremenda discussione tra Brabazon e Rosamund determinata a sposare Ned, si scopre che Brabazon è in verità il padre di Rosamund. Il film finisce quindi con il solito pastore che unisce in matrimonio i due e Brabazon che è, nel contempo, padre e suocero.

In Suspicious Wives, sempre del 1921, in cui il sospetto dell’adulterio cala su due coniugi, Molly (Mollie King) abbandona il tetto coniugale, le amicizie e la città e si ritira in un posto isolato di campagna mentre il marito James (H. J. Herbert), che la crede amante del suo amico Bob (Rod La Rocque) dispera e persegue comportamenti autodistruttivi durante uno dei quali rimane gravemente ferito in un incidente d’auto.
Ovviamente l’incidente avviene davanti alla porta di casa di Molly e l’infortunato non viene portato in ospedale, ma raccolto da passanti e condotto nella casa di Molly (una vera e propria occupazione edilizia) che volente o no deve per forza assumersi la cura dell’infortunato, che tra l’altro ha perso la vista. Pur sapendo che l’uomo è suo marito James non vuole svelare la sua identità per cui camuffa la voce e lo cura come una crocerossina.
Quando James riacquista la vista e ci si aspetta una chiarificazione dell’equivoco e una riappacificazione tra marito e moglie ecco l’arrivo fortuito di Bob di ritorno da un viaggio di lavoro in Messico e quindi del tutto ignaro delle vicende, che venuto a sapere dell’incidente va in visita al suo sfortunato amico.
Anche qui la finale restaurazione del matrimonio: né una moglie sospettosa e sospettata che, abbandonati marito e tetto coniugale (cfr. The Song of Life), si nasconde nel completo isolamento e anonimato, né un grave incidente automoblistico non riescono a disciogliere il matrimonio; alla fine sempre il solito lieto fine avulso ad ogni logica.

La moglie ritorna dal marito anche in Husbands and Lovers del 1924 (sul filone di altri film più o meno contemporanei come ad esempio Old Wife for New (1918), Don’t Change Your Husband (1919), Why Change Your Wife? (1920) e The Affairs of Anatol (1921), tutti di Cecil B. DeMille), dove Grace (Florence Vidor) tradisce il marito con un amico, divorzia, ma poi fugge col marito mentre l’amante l’attende sull’altare tra il divertente annoiarsi degli invitati. Il tutto causato da una nuova acconciatura che aveva stravolto la routine coniugale e aperto la porta di casa all’adulterio.

Un’altra ”fuga dall’altare” simile si ha in Memory Lane, una commedia sentimentale del 1926 dove Mary (Eleanor Boardman), la notte prima del matrimonio con Jim (Conrad Nagel) incontra il suo vecchio amore Joe (William Haines) che non hai mai smesso d’amarla. Il giorno dopo, Joe spia la cerimonia da oltre la strada e, quando gli sposi escono nel totale trambusto, Joe è sospinto e si trova al volante dell’automobile degli sposi in partenza per la “luna di miele”: quando Mary sale in vettura, lui parte lasciando lo sposo a terra.
Il gesto di Joe è improvviso, spontaneo, senza alcuna malizia, forse solo un cattivo schezo; ma la situazione si complica e aggrava quando, sotto un diluvio, i due restano senza benzina e non possono far altro che attendere l’alba e il rasserenarsi del tempo. Bellissima la scena della corsa notturna in macchina sotto la pioggia: mi ha trasmesso il senso di umidità e bagnato come altri pochi film (The Big Sleep con Humphrey Bogart e due versioni di Miss Sadie Thompson, quella del 1928 con Gloria Swanson e quella del 1953 con Rita Hayworth).
Il risveglio è in campagna tra maiali e galline che circondano l’automobile degli sposi.
Mary ritorna a casa dove l’attende lo sposo raffreddato e influenzato: e quale migliore matrimonio che quello attorno al marito malato? (cfr. Sospicious Wife). A Joe non spetta che trasferirsi in un’altra città per non nuocere alla “sua” Mary.
Anche dopo qualche anno, Mary in cuor suo non ha però ancora metabolizzato la sua unione con Jim e quando viene a sapere che Joe è di nuovo in città e vuole recarle visita, teme le sue emozioni e che, a rivederlo, si riaccenda il suo amore per lui.
A questo punto c’è un grossolana incongruenza psicologica: Joe vuole uscire definitivamente dalla vita di Mary e allora decide di recitare la parte di un noioso e sbruffone dandy ricco di città perché sa che i valori che sin da giovani continuano ad accomunarli son ben diversi, son quelli della vita quotidiana di un piccolo paese, delle canzonette romantiche, delle serate dopocena in giardino, della poesia: la sera del loro incontro prima del matrimonio un gruppetto di ragazzi canta “When You Were Sweet Sixteen” di James Thornton’s (1898). Ma Joe, assente dal paese da molto, non può conoscere il quantum di disillusione che Mary prova ancora, persino dopo la nascita di un figlio, e perciò non poteva contare con certezza sul buon esito della sua messa in scena. Joe dà per scontato un immutato e intenso amore da parte di Mary.
Comunque per riallacciarsi al secondo aspetto messo in luce, anche qui il dandy sta a significare divertimento, vita mondana, emancipazione ed è quindi un pericolo per la donna che per forza ne rifugge.
La proiezione è stata accompagnata al pianoforte e al canto da Donald Sosin che ha riproposto la vecchia canzone eponima “Memory Lane” di Buddy de Sylva e Larry Spier e Con Conrad un disco di successo nel 1924.

Forse il massimo dell’assurdità è raggiunto in The Child Thou Gavest Me del 1921 nel quale Norma (Barbara Castleton), violentata durante la guerra, sposa proprio il suo stupratore Edward (Lewis Stone) senza per altro che lui la riconosca.

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Le Giornate del Cinema Muto 2018

28 domenica Ott 2018

Posted by Tamara Sandrin in Entr'acte

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Abram Room, Anita Stewart, Barbara Castleton, Benjamin Chapin, Clarence Brown, Ernst Lubitsch, Florence Vidor, Helene Costello, J.S. Robertson, James Murray, John M. Stahl, King Baggot, Le giornate del cinema muto, Lew Cody, Lewis Stone, Marceline Day, Mirtle Stedman, Pauline Frederick, Pauline Starke, Pordenone, Rodrigo Codermatz, Tamara Sandrin, The Lincoln Cycle

di Rodrigo Codermatz

Premessa
Siamo ormai al nostro dodicesimo anno. Come abbiamo scoperto le Giornate del Cinema Muto di Pordenone?
Era il 2007 ed io, appassionato di blues pianistico, boogie-woogie, ragtime, charleston e swing avevo visto che il venerdì sera (12 ottobre), al Teatro Verdi di Pordenone, proiettavano
Chicago di Cecil B. DeMille un film muto americano del 1927 con l’accompagnamento musicale dal vivo; mi son detto -Chicago, film muto, anni Venti… musica dal vivo! Andiamo a vedere!- e così, finito di lavorare, partimmo veloci alla volta di Pordenone. Erano anni che non vedevamo Pordenone ed era per noi una cittadina praticamente sconosciuta: ci passavo ogni anno per andare o tornare dalle vacanze ma esternamente, per la statale, e mi era sembrata una città triste come Codroipo (per citare un pezzo musicale di Glauco Venier).
Invece quella sera ci colpì in particolare il viavai e la confusione di giovani, la musica e il trambusto che vivacizzano ogni anno in quel periodo piazza XX settembre difronte al teatro Verdi.
Ma soprattutto la cornice che la città con le sue vie, le vetrine dei negozi, i suoi bar davano alle Giornate del Cinema Muto: non c’era angolo di strada, bar, vetrina che non fosse addobbata o avesse qualcosa che ricordasse il cinema muto, gli anni Venti, il cinema; in corso Vittorio Emanuele (questo sì tanto carino con i suoi portici e il vecchio municipio in testa) c’era una pasticceria con un proiettore tutto di cioccolato! Tutta la città viveva il cinema muto cosa che, negli anni, abbiamo purtroppo visto scemare a partire dalla cartellonistica e manifesti (sempre, tra l’altro, molto belli) ogni anno sempre più ridotti.
Il cinema muto cos’era prima per me? Ne avevo sentito parlare quando dicevano di mia nonna Anna -sembrava una diva del muto!-, sapevo che c’era una certa attrice del muto, Gloria Swanson, che in
Viale del tramonto (1950) scendeva teatralmente una scalinata (confondendola o, per meglio dire, amalgamandola a Wanda Osiris), sapevo che il nonno Alfredo aveva chiamato il suo gatto Rodolfo in memoria di Rodolfo Valentino e poi Charlot, Keaton i primi Stanlio e Olio.
Devo dire che siamo stati molto fortunati:
Chicago è un film divertentissimo: la straordinaria e solare Phyllis Haver è una dinamite e conferisce alla trama un suo ritmo molto incalzante. Ci siamo molto divertiti e Chicago resta, nel suo genere, uno dei nostri film muti preferiti, il primo che consigliamo a chi vuole approcciarsi al cinema muto.
L’accompagnamento dal vivo, eseguito da musicisti (i migliori al mondo per il genere) che ormai, dopo dodici anni, riusciamo a distinguere persino dal tocco, era molto coinvolgente: io ero come una molla, tenevo il tempo coi piedi, le braccia, la testa, le labbra… il gruppetto musicale, un vero e proprio combo,
The Prima Vista Social Club, era composto da Neil Brand (piano), Günter A. Buchwald (violino/violoncello), Romano Todesco (basso), Denis Biason (chitarra), Stefan Oberländer (sassofono) e Matthias Daneck (batteria) sotto la direzione di Paul Lewis autore stesso della partitura. Neil Brand, Günter Buchwald e Romano Todesco sono tuttora presenze fisse e immancabili del festival non solo come accompagnatori musicali ma anche come docenti alle masterclasses per accompagnamento pianistico di film muti che anch’io ho seguito per diversi anni.
Siamo rimasti così sfolgorati da questo cinema muto che decidemmo di ritornarci il giorno dopo, la serata conclusiva del festival, sperando di recuperare un posto lasciato magari libero da qualche autorità vittima di un malaugurato imprevisto o impegno lavorativo accorso proprio alle 9 di sera del sabato. Con gli anni abbiamo capito che questi malaugurati impegni lavorativi alle 9 di sera di sabato non sono poi così rari soprattutto per il sindaco della città e le autorità politiche.
Ci è andata bene e fummo anche quella sera fortunati: in programma c’era
Die Buchse der Pandora di Georg Wilhelm Pabst, film tedesco del 1928, un grande classico e tra i migliori film non solo del cinema muto ma del cinema in toto, accompagnato dal vivo dall’Orchestra Sinfonica del Friuli Venezia-Giulia diretta da Paul Lewis autore della partitura. Senza parole.
Da allora il cinema muto non ci ha lasciati più: ogni anno aspettiamo con ansia che giunga la prima settimana di ottobre per immergerci completamente in questo vero e proprio mondo parallelo: una media di 9 ore giornaliere di visione per 8 giorni; e, ogni anno, usciti dalla serata conclusiva, abbiamo già nostalgia e vorremmo avere davanti almeno un’altra settimana.

Anche quest’anno, come ormai da un paio di edizioni, il festival è partito sotto tono per decollare poi a metà settimana.
Quest’anno molte proiezioni, e in particolar modo quelle di J. M. Stahl a cui quest’edizione ha dedicato particolare spazio, erano centrate sul ruolo della donna, primitivi tentati voli verso tematiche femministe che poi vengono drammaticamente riassorbiti dalle trame ideologicamente maschiliste e qualche volte bigotte come se tutt’un tratto intervenisse un Deus ex macchina maschilista con la bacchetta o un Io funzionale a correggere la rotta e si ha la sensazione di una invadente censura e manomissione di finali.
Questo è il caso di Captain Salvation di J. S. Robertson (USA 1927) tratto da un romanzo di Frederick William Wallace, che ha aperto il festival nella serata inaugurale con l’accompagnamento dell’orchestra San Marco di Pordenone diretta da Philip Carli autore della partitura.
Il giovane seminarista Anson (interpretato da Lars Hanson), ritorna al suo paese dopo un periodo di studi religiosi in città: già all’inizio del film, quando la nave sta attraccando e il seminarista si destreggia come un marinaio tra il sartiame sbracciandosi scompostamente per salutare i compaesani, grava sullo spettatore la grande richiesta del gruppo nei suoi riguardi; i compaesani si rendono subito conto che la scuola, la città, la società non lo hanno affatto cambiato e migliorato: è sempre lo stesso. Ma è nei suoi incontri romantici con la sua fidanzata Mary (interpretata dalla bellissima Marceline Day) in riva al mare (pregnanti e indimenticabili primi piani) che il seminarista lascia emergere la sua disillusione verso il futuro che la comunità e la tradizione familiare gli hanno riservato, una vita tranquilla da pastore, reclusa tra le quattro mura del paese e il suo rivoluzionario senso di libertà, il suo amore per l’avventura, per il mare. La baracca dei suoi amici pescatori diviene luogo di evasione, di trasgressione, di ascolto delle sue brame e desideri più intimi, diviene il suo angolo intimo, il suo rifugio, il suo mondo in cui poi fa entrare Bess, la prostituta naufraga (interpretata da Pauline Starke) che il paese respinge e condanna inesorabilmente, ma che Anson raccoglie da terra, veste e protegge infuocando la risposta reazionaria e bigotta della comunità.
La baracca è un mondo che non appartiene affatto alla comunità: il pescatore ruba la biancheria stesa di una compaesana per la prostituta, incrina il mondo “sotto bolla” della vuota moralità del gruppo.
È qui che inizia la liberazione di Anson che si affermerà poi con la sua decisione di imbarcarsi assieme a Bess sulla nave dei galeotti: uno schiaffo, uno sputo in faccia al mondo che gli altri avevano confezionato bell’e pronto per lui e Mary e che Bess ripaga uccidendosi per fuggire alle grinfie del vecchio capitano della nave mantenendo la promessa fatta ad Anson di non ricadere a sua volta nel suo mondo, cioè in quel mondo che gli altri avevano riservato per lei, quello della prostituzione e del disfacimento completo fuori del quale ella, come Anson, non è più riconoscibile.
Due mondi in fuga, una grave condanna verso la morale e la fede spenta dei padri e dei compaesani.
Una rivolta contro il Padre (lo zio di Anson), contro la legge, per ricadere inesorabilmente e moralmente nelle mani di un altro Padre ancor peggiore, il vecchio capitano, che carica a bordo e sottomette una figlia e un figlio trasgredenti la legge, virtualmente li sposa nel loro incesto contro la moralità, per poi sostituirsi al figlio, rubargli la donna, come la comunità gli aveva in fin dei conti tolto Mary. Il capitano diventa Padre nel ribadire la condanna di Bessie mentre Anson teme l’orda fraterna dei galeotti prigionieri nel grembo della nave.
Dopo il suicidio di Bess, ecco la deposizione del Padre da parte del figlio: la lotta che porterà poi alla caduta (nel vero senso della parola) del Padre è un vorticoso e vertiginoso arrampicarsi e inseguirsi di Anson e il capitano sull’albero maestro della nave, simbolo fallico che ristabilisce già una logica maschilista e patriarcale. E non poteva esserci caduta più rovinosa del Padre dalla cima dell’albero maestro.
E questo doveva forse prepararci ad una restaurazione del Nome del Padre, alla sua inesorabilità, all’inesorabilità della Legge che diviene Logos, parola, quando, confiscata la nave, Anson la ribatezza “Bess”: non è la Bess-prostituta ma la Bess che si è uccisa per fuggire alla sua vecchia vita. Il nome della nave è ora la Legge, la Restaurazione, il simbolo dell’annientamento del peccato e del trionfo della moralità: per questo ora Anson può riportare la nave al porto del suo paese perché è il ristabilirsi della Legge e, nel contempo, l’espiazione dell’uccisione del padre.
Ma la nave “Bess” è anche la pietra tombale che Anson pone sulla sua libertà, è la condanna del suo desiderio di emancipazione come degradazione morale e corporea, come degradazione sociale.
Il figliol prodigo è ritornato e goderà dei favori del Padre.
Inutile quindi aspettarsi a questo punto un verbo nuovo, un’etica, al limite anche una fede, uno sfondamento morale, una svolta, una voce di condanna che dica -ecco, voi con la vostra religione e il vostro Dio l’avete uccisa!-.
Al contrario c’è il senso di colpa e la coerente e definitiva restaurazione del Padre, del suo Nome, del suo Verbo: Anson sale sul pulpito e saluta la folla accorsa e verosimilmente già consapevole della propria vittoria per dire -sono tornato in porto, a casa, al focolare, a voi e alla vostra morale-. Ma ciò che Anson riporta a casa è la morte della libertà, la sua adesione definitiva alla richiesta della comunità (è già un pastore che predica dal pulpito della nave come un guerriero sul corpo della sua vittima) nel suo definitivo addio al vagabondare per i mari come fuga (simboleggiata da Bess-prostituta) dalla vuota moralità della comunità.
Il film si conclude con un abbraccio riconciliante tra zio-Padre e nipote-Padre, un vero e proprio patto, la consegna delle parti: lo zio-Padre è ora un Abramo che una volta non ha avuto fede e che ora paga la sua incredulità rimettendosi al nipote, un nuovo Padre-Dio, al timone di una nave (libertà), in fin dei conti, riportata in porto e rinnegata (ribattezzata). Anson, festeggiato ora dalla comunità, è il nuovo Padre-Dio-timoniere grande reazionario e restauratore della morale bigotta, della spenta fede comunitaria. Il riabbraccio con Mary è, infine, castrazione.
Al timone della nave parte per una missione evangelica che è l’imperialismo e il colonialismo propri di una logica bigotta e sessista reazionaria.

Un’altra sfida al Padre è quella del film tedesco Das alte Gesetz di Ewald André Dupont (1923) con esiti nettamente diversi: Baruch il figlio del rabbino di un piccolo paese della Galizia, non vuole seguire le tracce del padre e come Anson si sente prigioniero della stanza della preghiera e sogna la vita mondana e cittadina, la vita dell’attore come gli è stata raccontata da un povero vagabondo amico del padre che ha visto egli stesso in persona gli attori del Burgtheater di Vienna.
Il ritorno del figliol prodigo qui non è una restaurazione ma una nuova rottura, il Padre rinnega il figlio. Se per Anson l’attacco al Padre è navigare i mari, per Baruch l’attacco al Padre è la vita mondana d’artista presentata dal vecchio vagabondo. C’è un comune vagabondare come elemento che minaccia la Legge del Padre.
Nel film di Dupont il Padre è vinto e la Legge passa la parola: il vecchio rabbino, nottetempo, si barrica nella stanza della preghiera e si immerge nella lettura delle opere di Shakespeare mettendo da parte la “Legge”; la partenza del vecchio rabbino alla volta del Burgtheater di Vienna per assistere alla recita di suo figlio è l’alba di un mondo nuovo.
La proiezione è stata accompagnata dal vivo dal quartetto Alicia Svigals (violino), Donald Sosin (pianoforte), Romano Todesco (contrabbasso) e Frank Bockius (percussioni): i virtuosismi violinistici che accompagnano la fuga di Baruch segnano l’allontanamento dalla Legge del Padre: «Là sui salici, noi abbiamo appeso le nostre arpe» celebra il salmo 137 e il poeta Temistocle Solera vi si ispira per il Nabucco di Giuseppe Verdi (1842): “Arpa d’or dei fatidici vati perché muta dal salice pendi?”: gli Ebrei, schiavi in Babilonia, depongono gli strumenti musicali che vengono allontanati dalle sinagoghe e rimane solo il lamento monodico e monotòno che noi tutti conosciamo. Al violino spetta, invece, l’espressione dell’animo umano, delle sue passioni, un’espressione deprivata però della parola che rimane Legge.

Gran parte delle pellicole in programma quest’anno si interrogano sul ruolo della donna: interessanti, in questo senso, i sei film di J. M. Stahl, distribuiti lungo tutta la settimana, che hanno fatto un po’ da colonna vertebrale alle Giornate. Questi film, in genere, non riescono a definire un ruolo emergente ed emancipante della donna e si imbrogliano in trame confuse, illogiche e contraddittorie, in assurdi e ridicoli colpi di scena fatti da improbabilissime coincidenze e incontri, pur di far rientrare la donna nello stereotipo sessista di una mentalità nettamente maschilista e centrata sul matrimonio e la famiglia, quali apparati funzionali all’emergere e stabilizzarsi di una società piccolo borghese produttiva perché lavora e riproduce forza-lavoro. Ma forse si sente serpeggiare nelle trame una certa inquietudine, un senso di insoddisfazione e de-responsabilizzazione, di consapevolezza del limite e anche, perché no, dell’anacronismo: negli stessi anni abbiamo, giusto per fare due nomi, Ernst Lubitsch ma anche Abram Room che presentano una figura femminile ben diversa (basti pensare a Forbidden Paradise del 1924 con Pola Negri in programma quest’anno e Tret’ja Meščanskaja del 1927 in programma nel 2010).

Tratterò dei film di Stahl proiettati alle giornate in un altro articolo dedicato.

The Home Maker di King Baggot (1925) costituisce sicuramente, tra i film presentati quest’anno, l’avvicinamento più ardito al superamento dello stereotipo dei ruoli familiari rivalutando l’importanza della figura paterna nell’educazione e nello sviluppo emotivo dei figli e ridimensionandola come simbolo di vuota autorità.
Lester Knapp (Clive Brook) è un impiegato che crede ormai prossima un’importante promozione e avanzamento di carriera; ma un improvviso cambio di politica aziendale orientata meritocraticamente è causa del suo improvviso licenziamento per inefficienza che vanifica tutti i suoi progetti e getta un’oscura ombra sul futuro della sua famiglia, i tre figli e la moglie Eva (Alice Joyce). Lester cade in uno stato di profondo sconforto e di autoaccusa.
Un giorno il camino della loro vicina prende fuoco e Lester sale sul tetto per estinguere le fiamme a secchiate d’acqua: malgrado la sua buona volontà, il suo intervento risulta insignificante per il tempestivo intervento dei pompieri che in quattro quattr’otto estinguono le fiamma. Lester ha perso un’altra occasione per dimostrare a se stesso la propria efficacia. Matura in lui allora l’idea suicida di lasciarsi scivolare dal tetto: ma fallisce nuovamente; soccorso, egli è ancora vivo ma costretto alla sedia a rotelle.
Al completo fallimento della figura maschile nella sua efficienza e produttività subentra l’iniziativa, l’imprenditorialità e l’energia della moglie che si reca dall’ex principale del marito per chiedere un posto di lavoro. In breve Eva eccelle nel suo lavoro di commessa e ottiene la promozione.
Lester non può far altro che accudire i figli e, con il loro aiuto, espletare qualche semplice facenda casalinga come, ad esempio, cucinare; per tutto il resto c’era una domestica. Tra padre e figli si instaura un bellissimo rapporto di collaborazione che risolve, tra l’altro, i seri problemi comportamentali del figlio più piccolo, una vera peste, e quelli intestinali del figlio più grande somatizzazione delle discordie e tensioni tra i genitori ormai alle spalle.
Situazione idilliaca che porta forse lo spettatore a ritenere fallimentare la funzione materna di Eva dimenticando però che lei aveva da dividere il suo tempo anche con le faccende domestiche quando non avevano ancora la domestica assunta in aiuto al marito paralizzato.
Ma è di nuovo il fuoco a segnare il destino di Lester: una notte, una corrente d’aria dalla finestra aperta sposta la fiamma di una candela sulla tenda che prende fuoco: Lester si sveglia e, nell’impeto, si alza in piedi e corre a spegnere il fuoco. Il pericolo e la forza di volontà gli avevano improvvisamente fatto recuperare l’uso delle gambe: ma Lester, per la felicità e il bene della moglie, decide, con la complicità del medico, di continuare a fingersi paralizzato.
Il messaggio finale ritorna quindi come un boomerang sulla logica e ideologia sessista e maschilista: il fallimento e l’improduttività maschile non può essere che una concessione sacrificale al “gentil sesso”, come qualsiasi altro gioiello, profumo o cappellino; Lester si sacrificherà a rimanere sulla sedia a rotelle per rendere felice Eva: la produttività femminile è un riflesso di quella maschile e da questa è mantenuta. Lester non ammette nemmeno con se stesso che il nuovo ruolo lo rende felice ed è più consono alla sua intima attitudine educativa piuttosto che un qualsiasi lavoro impiegatizio fuori casa. Nel film non viene neppure preso in considerazione il fatto che Lester avrebbe potuto optare per un lavoro diverso, a esempio come maestro o educatore, e viene ancora una volta sottolineato il fatto che, allora come ora, il lavoro domestico, di allevamento ed educazione dei figli, in quanto lavoro non retribuito, non è un lavoro importante e degno di un “uomo”.
L’evidente e inesorabile inefficienza dell’uomo è, al contrario, resa semplicemente un “essere diversamente produttivi”.
Da tutte queste narrazioni vediamo che la donna che si rende autonoma diviene o una donna da malaffare (un’attrice o un’entreneuse in Sowing the Wind), o una cattiva madre (The Song of Life e The Home Maker), o una vanitosa (Sowing the Wind e Husbands and Lovers) o infine ambiziosa (sempre in The Home Maker).

Ritornando a J. M. Stahl, il suo The Lincoln Cycle del 1917 con Benjamin Chapin (che poi si è accreditato la direzione e la stessa produzione) ha, invece, allietato l’inizio di quasi tutte le giornate con dei piacevoli e coinvolgenti aneddoti della vita del presidente. Purtuttavia anche qui non fuggiamo al meccanismo ideologico della narrazione: siamo finalmente difronte ad un vero maschio-padre fallimentare e ad una madre che, al contrario, in massima autonomia plasma un grande uomo, un grande presidente, una grande nazione.
Ma la donna-madre è del tutto innocua e inefficiente in quanto morta: spetta al futuro grande uomo riseppelirla per una seconda volta.

Dove la donna efficiente, produttiva, intraprendente ed emancipata non è fatta morire, scatta un’altra operazione ideologica: quella di disintegrare la sua femminilità, renderla mascolina, brutta, vecchia etc. come accade per es. in Smouldering Fires di Clarence Brown del 1925.

To be continued…

Appendice – In Old Kentucky (John M. Stahl, 1927)

di Tamara Sandrin

L’aspetto che ho trovato più interessante nel film di John M. Stahl In Old Kentucky è il ritorno della figura del cavallo-soldato (di cui ho già parlato in questo articolo), che nella mia visione adombra sia la storia d’amore che il dramma familiare.
L’invisibilità degli animali, dei cavalli in questo caso, è in realtà la colonna portante, il sotteso di tutta la storia, di tutto il film: la ricca famiglia Brierly ha costruito il suo impero, in stile “vecchio Sud” con tanto di servitù nera devota fino alla stupidità, sull’allevamento e lo sfruttamento dei cavalli da corsa. All’avvento della guerra la famiglia deve sacrificare il figlio Jimmy (James Murray), che parte volontario, e i cavalli requisiti invece per la leva obbligatoria, costretti, loro malgrado, a combattere una guerra, ovviamente, solo umana.
Il dramma della guerra è mostrato nel film alternando alcune scene di battaglia a quelle della vita quotidiana che si fa via via sempre più dura per le difficoltà economiche della famiglia Brierly: persi i cavalli è perduta la fonte di ricchezza e lo status sociale.
È interessante notare che in una delle scene di guerra Jimmy incontra la sua cavalla Queen Bess, la punta di diamante della scuderia di suo padre, senza peraltro riconoscerla, vuoi per il buio della notte, vuoi per la tensione, la paura e l’incalzare della battaglia. Grazie alla cavalla Jimmy riesce a compiere un’importante e pericolosa missione al cui termine Queen Bess viene colpita da una bomba e Jimmy, non curandosene troppo (o per niente), la crede morta.
È sottolineata dunque, di nuovo, l’invisibilità di quell’animale (tanto che nel cast compare Jiggs the dog, ma non il nome della cavalla-attrice!), che pur aveva costituito ricchezza e fortuna per il giovane e la sua famiglia e questa invisibilità preannuncia il cambiamento che la guerra ha già causato in Jimmy.
Alla fine del conflitto, i reduci ritornano a casa, feriti nel corpo e nello spirito. Come vediamo in molti altri film (da J’accuse a A couple of down and out, da All’ovest niente di nuovo, a I migliori anni della nostra vita, ecc.) non trovano e non possono ritrovare il loro posto nella società che avevano lasciato: la guerra li ha distrutti, resi irriconoscibili. Jimmy è arrogante e offensivo, pieno di rabbia, disilluso, dedito ad alcool, droghe e gioco d’azzardo. La povera Queen Bess, ferita, stanca e deprivata, viene venduta all’asta per passare da uno sfruttamento all’altro e infine – possiamo immaginare ben conoscendo il destino degli animali sfruttati in guerra – al macello. Ma in questi passaggi viene intercettata dal vecchio Brierly (Edward Martindel) che, nonostante tutto e a differenza del figlio, riconosce immediatamente la regina della sua scuderia. Riesce a riappropriarsene ma non per salvarla (come accadeva nel già citato A couple of down and out, dove il destino di uomo e cavallo era lo stesso) e donarle il meritato riposo, ma per reintrodurla a forza nel circuito di sfruttamento delle corse.
Lo schiavo fa la ricchezza del suo padrone: il maggiordomo nero (Nick Cogley) ha permesso alla famiglia Brierly di sopravvivere durante la guerra mercanteggiando e discutendo con creditori e bottegai, la serva nera (Carolynne Snowden) regala al “suo” padrone i cento dollari, che gli permettono di evitare il carcere per un assegno a vuoto, e, infine, la cavalla-schiava Queen Bess (da notare l’ossimoro!) vince la corsa e restituisce ai padroni ricchezza, fama e felicità. Anche Jimmy infatti è portato al pentimento da un secondo incontro con la vecchia cavalla, che stavolta riconosce come la compagna di guerra che l’aveva fatto volare tra le raffiche nemiche, e, figliol prodigo pentito e contrito, ritorna alla famiglia, al padre e alla devota fidanzata (Helene Costello).
La restaurazione dell’ordine antecedente al conflitto è quindi totale e il passaggio attraverso il calvario, le sofferenze, le privazioni e le perdite della guerra non ha insegnato niente: non esiste dialettica se non quella servo-padrone, l’alternanza tra visibilità e invisibilità per Queen Bess e per tutti i coscritti della leva obbligatoria, animali e umani, che non compaiono mai nel film.

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