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Alfredo Viglieri, esplorazioni polari, Felice Trojani, Finn Malmgren, Francesco Behounek, Italia, Nansen, Norge, Polo Nord, Roald Amundsen, Rodrigo Codermatz, Samoilovic, Titina, Umberto Nobile
di Rodrigo Codermatz
La storia delle esplorazioni polari è più che mai costellata di vittime e sacrifici non solo umani ma soprattutto animali anche perché la natura ancora selvaggia, inospitale e avversa dei Poli ha messo più volte l’uomo in situazioni veramente al limite, veramente disumane e tragiche, situazioni in cui l’uomo si è trovato faccia a faccia con la morte e, per sopravvivere, più volte ha dovuto regredire a comportamenti estremi, primitivi, istintuali che la civiltà aveva ormai rimosso e allontanato (ad esempio il cannibalismo).
Esplorazioni che spesso nascondevano, sotto motivazioni sostanzialmente commerciali e scientifiche, uno spirito originario di sfida, di competizione, nonché un anelare romantico a oltrepassare sempre il limite imposto alla conoscenza e all’occhio umano, per tendere all’infinito quale motore di conoscenza. Altre volte un puro nazionalismo motivava questa corsa al Polo, l’idea di porre una bandiera, una croce agli estremi del mondo conosciuto, di esorcizzare quel punto geografico che la letteratura e le vecchie carte geografiche riempivano di mostri, rovine, castelli e torri, fantasmi, fosse e mostri marini. Un gusto romantico nel superare il mistero e l’ignoto che i Poli hanno sempre simboleggiato per questi “arditi” e impavidi.
Arditezza, spesso degenerata in cieca bramosia, che si è rivelata il più delle volte tragica negligenza, superba sprovvedutezza, azzardo, dilettantismo, irresponsabilità che ha drammaticamente costato la vita a centinaia di uomini e ha giocato con l’esistenza di migliaia di animali.
Esempi tra tanti: i 17 ponies della spedizione di Robert Falcon Scott al Polo Sud1 che, usati per la marcia sulla banchisa polare, persero la vita insieme a tutto l’equipaggio; i 34 cani di Nansen2 nella spedizione della Fram finiti per sfamarsi a vicenda e gli ultimi due, Kaifas e Suggen, uccisi per alleggerire il carico del cajak sulla via del ritorno (per non citare gli orsi e le foche uccisi durante la marcia e lo svernamento); i 121 cani della Stella Polare3 e i 353 di Knud Rasmussen nell’attraversata della Groenlandia nel 1912.
Ma mentre l’uomo ebbe sempre la scelta di astenersi o, in un controllo del suo impeto sportivo o entusiasmo nazionalistico, di fermarsi e ritornare sui suoi passi, una pari scelta non è stata mai concessa agli animali che lo accompagnavano o che disgraziatamente si son trovati sul suo percorso devastatore. Nella storia delle esplorazioni polari più che altrove possiamo vedere la salda alleanza tra scienza, religione, nazionalismo, patriottismo, militarismo, agonismo e letteratura contro il mondo animale, l’uomo contro la natura, il puro colonialismo.
Come non ricordare le pagine di questi esploratori in cui si descrivono il massacro di diverse specie animali (trichechi, foche, orse, folaghe, cani) per alimentarsi, i sacrifici e le fatiche, le torture che essi infliggevano alle mute dei loro cani di slitta, agli asini e ai cavalli; e ricordo, tra tante, quelle dei diari di una spedizione totalmente inutile come quella della Stella Polare nelle quali Umberto Cagni racconta la sua marcia per battere il primato di Fridthjof Nansen attraverso la banchisa dove metro per metro uomini, slitte e cani sprofondavano completamente nel ghiaccio e per uscirne dovevano compiere un logorante e massacrante lavoro di braccia e zampe.
Alcuni filmati dell’epoca testimoniano questa realtà tragica e ci danno un’idea di qual era in fondo il destino e la vita di questi animali al seguito delle spedizioni, caricati nelle stive delle imbarcazioni e destinati a enormi sofferenze e fatiche e poi a essere usati come cibo per gli altri animali e per lo stesso equipaggio.4
In questo panorama di assoluto sfruttamento e reificazione totale dell’animale ridotto a puro strumento, commuove nella sua unicità la vicenda di Titina, il cane del generale Umberto Nobile, sbalzato sul pack assieme al suo compagno e altri 8 uomini (di cui uno morto sul colpo)5 dopo che il dirigibile Italia, di base a Ny Ålesund (King’s Bay nelle Isole Svalbard) e al suo terzo volo ricognitivo sulla calotta polare6, la mattina del 25 maggio 1928, a 7 miglia dall’Isola Foyn, urtò tragicamente contro il pack per poi rialzarsi paurosamente alleggerito e scomparire per sempre assieme ad altri sei membri dell’equipaggio.7
Difficile trovare nelle pagine dei diari e nella storia delle esplorazioni polari un affetto e una comunanza pari a quelli che i naufragi dell’Italia vissero nei confronti di Titina in quei giorni che rimasero abbandonati sul pack, confinati nella cosiddetta “tenda rossa” in balia della deriva, lontani dal mondo umano, provati dall’estrema disperazione, dallo sconforto, dalla rassegnazione alla morte. Affetto che riaffiora più volte dalle emozionanti pagine dei loro racconti, dai loro ricordi, dalle loro testimonianze. Continua a leggere