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animalismo, antispecismo, Brock Bastian, Henri Bergson, immagini, messaggi subliminali, psicologia, pubblicità, Rodrigo Codermatz
di Rodrigo Codermatz
pubblicato originariamente qui.
Cammino per strada e m’imbatto in un maialino di legno, posto all’entrata di una trattoria, con forchetta e coltello in mano, tovagliolo al collo, pronto ad addentare un suo simile: immagini come questa (o di pesci con la canna da pesca in mano, di mucche in minigonna che tengono il secchio pieno di latte come una borsetta, etc… perchè non c’è limite alla stupidità) popolano le nostre città, le nostre piazze, i nostri paesi, le nostre campagne e pretendono di divertirci, farci ridere, vogliono essere comiche.
Ed io mi sento nuovamente ghettizzato nel mio stupore e disgusto per questa società del tutto indifferente e sorda alla sofferenza e al destino dei meno fortunati, persino della sua stessa specie; perciò questa volta voglio interrogarmi sul senso di questa macabra e ostentata comicità che rimbalza e viene amplificata da questi squallidi segnavia in cui ci imbattiamo tutti i giorni uscendo da casa.
Certo è la forma più semplice e immediata per distorcere la realtà presentarci un maialino pronto ad abbuffarsi, un pesce tutto allegro e felice che sta pescando o una mucca tutta sorridente, magari con un fiore in bocca, che con il suo secchio di latte ritorna canticchiando da un sentiero di montagna: come possono queste immagini riportarci seppur lontanamente agli allevamenti dove queste creature vivono ammassate nel sovraffollamento e nella sporcizia fino ad ulcerarsi, alle continue e ininterrotte fecondazioni artificiali, al massacro dei vitellini, alla macinatura dei pulcini, all’ingozzamento forzato e al taglio del becco, agli esperimenti, al continuo disorientamento temporale dell’inesistenza del giorno e della notte e, alla fine di questa via crucis, l’esecuzione spesso drammatica e dolorosa (spesso l’animale non muore al primo colpo), la macellazione, la disintegrazione di un individuo (che viveva, pensava, sentiva) e la sua dispersione? Come possono queste immagini farci solo sorridere? Ci può essere una forma depravata di riso? Che senso mai avrà?
Mi ritornano alla mente alcune pagine de Le Rire di Henri Bergson1, dove il filosofo francese, sottolineandone la dimensione relazionale o interpersonale che dir si voglia, diceva che il riso è un messaggio, un gesto sociale con un significato e una funzione ben precisi: innanzitutto crea dal nulla un legame, un microsistema sociale costituito da colui che ride, colui di cui si ride e da coloro che ridono assieme al primo; delle persone spesso estranee l’una all’altra, dei semplici passanti, sono legate dal riso in un gruppo compatto altamente gratificante e colludente nel deridere qualcun altro o qualcos’altro.
In una società che esige dall’individuo, ed esigeva – ahimè – già ai tempi di Bergson, una certa elasticità corporea e spirituale in modo che questi sia sempre pronto e in grado di adattarsi ad essa, ogni rigidità corporea e caratteriale è sospetta in quanto può isolarsi e divenire eccentrica. Il riso allora è lo strumento in mano alla società per punire, umiliare, castigare, impaurire e reprimere questa rigidità che non riesce ad adeguarsi; è la rigidità come meccanismo aggrappato alla vita, alla fluidità, che infatti genera il riso: pensiamo alla goffaggine di un corpo che inciampa, ad una smorfia in cui non è il brutto a farci ridere ma il fissarsi della mimica facciale in una posizione, a tutte quelle scene dove è la ripetibilità, l’automatismo, il prevedibile a farsi comico, alla maschera come rivestimento meccanico della fluidità.
Nel riso, quindi, il gruppo fa pressione sull’individuo che si pone come rigidità, per ristabilire la fluidità e l’elasticità della situazione relazionale ottimale.
Il riso non può che essere allora umiliazione penosa, insensibilità, indifferenza, anestesia momentanea del cuore, pura intelligenza come più grande nemica dell’emozione, intesa e complicità del gruppo nel castigare: il riso, dice Bergson, intimidisce umiliando e perciò non può essere né giusto, né buono.
La sofferenza e la morte che l’uomo apporta al mondo animale è quella realtà inequivocabile che, per quanto egli faccia per rimuoverla e nasconderla a se stesso e agli altri, rimane come nocciolo irriducibile, come pura rigidità inadattabile, refrattarietà, impermeabilità. E’ una voce sempre pronta a riemergere nella sua ferma e univoca denuncia: il suo appello non vuole il compromesso, la tregua, l’accordo bilaterale, l’accomodamento; è rigidità in quanto risolutezza, coerenza, convinzione.
Il maialino di legno che intanto dà il suo muto benvenuto agli avventori della trattoria è quindi il rigurgito di ciò che non può essere metabolizzato, di ciò che non si è ancora riusciti ad ammorbidire, a plasmare, è la coscienza dell’uomo che di tanto in tanto inciampa o rimane costretta alle corde ed esala questo suo risolino isterico. In esso la società è vittima del suo stesso castigo, della sua stessa punizione, è vittima di ciò che vuol reprimere: la società ride di se stessa.
La società non riesce a prendere sul serio l’animale: ci borbotta attraverso queste immagini alla stessa maniera di come un genitore sta al gioco del figlio e parla al suo orsacchiotto di peluche; l’uso dell’immaginario infantile (cartone animato, fumetto, pupazzo etc.) completa quindi la distorsione del reale sospingendo l’individuo nel suo mondo fantastico di animali sempre liberi e felici. Continua a leggere