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anticipated moral reproach, Benoît Monin, Brock Bastian, Hans Kelsen, Jacques Derrida, Julia Minson, Maurice Merleau-Ponty, meat paradox, Melanie Joy, Nick Haslam, Phyllis Greenacre, Rasmus Rahbek Simonsen, Renee Major, Rodrigo Codermatz, Steve Loughnan, Veganesimo e famiglia
di Rodrigo Codermatz
Pubblicato originariamente qui.
In Veganesimo e famiglia1 avevamo caratterizzato il nostro corpo come essere-visto e, in quanto portatore di comportamento, sottoposto allo sguardo, al controllo e al giudizio dell’ambiente sociale a cui apparteniamo.
Il bisogno di sicurezza come funzione difensiva dell’Io e gradiente d’ansia si trasforma in comportamento gratificante verso le aspettative di questo ambiente in questo modo reiterandolo, riproducendolo.
Il corpo risulta essere così il primo degli oggetti culturali, l’incarnazione della cultura come status quo dell’ambiente che abbiamo alle spalle, della tradizione, della società, una ricapitolazione incredibilmente condensata dell’ambiente del passato come ha scritto Phyllis Greenacre.2
Rimettere in questione i valori e la logica che fondano la nostra società, la nostra cultura e tradizione e che ci hanno portato alla totale sovranità sull’Altro vuol dire ribaltare i termini: come l’agente materno o la persona più importante sotto lo sguardo del suo ambiente costringe il figlio in uno stato ansioso che si organizza in risposta gratificante e corrispondente alle aspettative del gruppo, così il figlio deve ora scrollarsi di dosso l’occhio giudicante della madre e da corpo visto e giudicato erigersi a corpo giudicante.
E’ questa oggi la funzione del corpo-vegano:3 non essere corpo sano in una società egoica e narcisistica come la nostra che erige paradisi di benessere, di bellezza e di cultura del corpo, una società ipocondriaca, preoccupata e ossessionata dalla salute; bensì essere termine di confronto, testimonianza di un modo di vivere che non ha più bisogno di sicurezza, tranquillità e felicità, del buon senso e neppure del buon vicinato, di essere garantito e fondato da una logica di violenza e sfruttamento dei più deboli e indifesi.
Come coscienza evoluta ed esistenza possibile senza sfruttamento e sovranità, il corpo-vegano deve farsi paladino di una nuova e più profonda sensibilità, di un pensiero anni luce più evoluto che, al giorno d’oggi, emergendo dall’anonimato, è elitario.
Ma cosa intendo per testimonianza?
Già in Veganesimo e famiglia definivo testimonianza la dimensione assolutamente personale, esistentiva, ontica che fonda il discorso etico universale quale proiezione dell’incontro protoetico con il volto animale come espressione di vulnerabilità, di compartecipazione alla limitatezza, alla sofferenza e alla morte.4
Qui aggiungerei incontro protoetico col volto animale come fiducia, dedizione, fedeltà: guardo la mia cagnetta Carlotta negli occhi e lei non sta soffrendo; ma mi suscita tenerezza e amore il fatto che lei si affida completamente a me.
In questo senso qualcuno ha parlato di un doppio tradimento inflitto agli animali d’allevamento.
Ma il corpo vegano come testimonianza non deve risolversi in amor proprio quale figura della sovranità o in un’economia dell’appropriabile e del riappropriabile; come, per esempio, l’idea di testimonianza in Melanie Joy come empatia e riduzione del divario (gap), delle contraddizioni, assurdità e incongruenze della nostra coscienza che lo schema carnistico, come pregiudizio di conferma, vuole mantenere distorcendo le percezioni che minacciano di riassorbirli.5
Un’implosione, la testimonianza della Joy, dell’individuo che si integra a se stesso e cita Eddie Lama: “mi rendo conto che gli animali continueranno a soffrire e a morire ma non per causa mia”.
La testimonianza risulta così essere semplicemente la coerenza pensiero-azione: da qui l’ossessione di certo antispecismo per la coerenza dimenticando la dimensione della prassi coi suoi diversi apporti contaminanti: “l’antispecismo dovrebbe abbracciare una prospettiva contaminante” scrive Rasmus Rahbek Simonsen.6
Il corpo-vegano come testimonianza non deve essere compiacimento etico ma, piuttosto un chez soi, come direbbe Renee Major, un giardino segreto dentro di sé pronto ad essere disappropriato per accogliere l’altro7, da dove proferire la minaccia, preparare l’insidia, l’azione di disturbo, l’agguato, l’attentato allo status quo sovrano: non è etica, è politica.
Il suo compito è quello di imputare (nel senso giuridico della parola di cui ci parla Hans Kelsen)8 l’onnivoro, destabilizzando e destrutturando le strutture di scambio che reggono la situazione interpersonale sicura, mantenendola squilibrata e compromessa con il risultato di ingenerare uno scarto, un divario e un senso (che ho definito “strategico”) di disorientamento e d’inferiorità nell’onnivoro .
E’ in questo scarto, in questa zona di silenzio che la critica può colpire la cultura e si crea spazio libero per altre possibili strutture di scambio e oggettivazioni.
Il corpo-vegano, sospendendo il bisogno di sicurezza interpersonale come falso bisogno, interrompe la serialità e l’anonimato della massificazione e del consumo, rallenta i loro ritmi, lascia l’offerta senza interlocutore e punto di riferimento perché delimita e riduce al minimo il suo carattere di domanda, interdice il sistema produttivo. In poche parole, si pone come assoluta alterità e alternativa alla nostra società.
Questa funzione destabilizzante e provocatoria del corpo-vegano compare nell’esperimento condotto dagli psicologi statunitensi Julia Minson e Benoît Monin e descritto nel loro articolo Do-Gooder Derogation: Disparaging Morally Motivated Minorities to Defuse Anticipated Reproach.9
A 47 studenti onnivori (16 maschi, 25 femmine e 6 di cui non è stato dato il sesso) di un corso introduttivo di psicologia in un’università privata è stato chiesto di esprimere il loro parere sui vegetariani: il 53% ha espresso un giudizio positivo (earthy, hippie, hippies, alternative, green, environmentalist, politically correct, strong-willed, liberal, health-conscious, religious, careful, conscious, strong beliefs, will-power, animal-lovers, dedicated, caring, kind, brave, sweet, thoughtful, thin, slim, healthy) o neutro (silly, skinny); il rimanente 47% ha espresso un giudizio decisamente negativo sul vegetariano ritenendo che questi si consideri almeno dieci volte moralmente superiore all’onnivoro.
Pur credendo che in realtà ci sia poca differenza morale tra loro e i vegetariani, gli onnivori si sentono così moralmente giudicati (Anticipated Moral Reproach) che il vegetariano è da loro sentito come una minaccia largamente esagerata (a threat that is vastly exaggerated) da cui difendersi preventivamente: credendo di neutralizzarlo, cercano di screditarlo (derogation), di renderlo ridicolo, ottenendo, al contrario, l’effetto ironico di amplificare il suo messaggio etico e di diventare più esposti e vulnerabili alla minaccia.
Un comportamento morale esplicito risulta così essere ridicolo e noioso invece di suscitare ammirazione e rispetto: questo, secondo gli autori, succede ad ogni gruppo, ad ogni minoranza che vuole allontanarsi dallo status quo e farsi portavoce di principi morali (Do-Gooder).
In questo caso la scelta dietetica di una minoranza vegetariana è vissuta dagli onnivori (Meat-eating Mainstream) come una condanna pubblica di un loro comportamento: il loro sentirsi moralmente giudicati sfocia in forte risentimento; spesso, infatti, le persone sono molto sensibili alle critiche verso il loro senso etico e morale e magnificano di più le loro qualità morali che le proprie competenze.
E’ interessante notare come la quasi totalità dei giudizi negativi connota caratteristiche sociali negative (annoying, arrogant, conceited, sadistic, judgmental, posers, pretentious, stupid, uptight, flawed, preachy, picky, weird, bleeding hearts, conformists, self-righteous, militant, PETA, crazy, limited, opinionated, strict, radical, vegan) mentre solo la minima percentuale rimanente si riferisce a debolezza fisica (malnourished, pale, tired): il che sottolinea la natura interpersonale del problema; l’individuo viene colpito nel suo non corrispondere alla situazione interpersonale omologata; è dimostrato, infatti, che tale risentimento può nascere anche quando si colpiscono dei costumi e abitudini familiari accettati e considerati normali dalla società, ad esempio in questo caso, il mangiar carne.
Da queste considerazioni è evidente la funzione destrutturante e disturbante del vegetariano nel contesto sociale quando è messo sotto accusa un comportamento profondamente radicato nell’abitudine e nella cultura da essere ritenuto norma sociale. A maggior ragione se si fosse trattato del vegano.
Al contrario l’offensiva onnivora appare più ridimensionata sul piano del benessere fisico e del salutismo: il che può far presumere una certa lontananza di questi da un certo discorso etico-morale animalista.
Non deve meravigliare neppure l’esagerata percezione da parte dell’onnivoro della minaccia poiché egli ha la corretta percezione di non aver alcun potere argomentativo, di non possedere le strutture di scambio adeguate per sostenere una valida difesa delle sue azioni e dei suoi principi morali davanti al vegetariano.
Questo perché anche il concetto di moralità dietro cui egli si nasconde ha il carattere paradossale, contraddittorio e tautologico tipico dei comportamenti di difesa davanti a stati particolarmente ansiogeni. Scrivono, infatti, gli autori all’inizio della loro ricerca: “While societies may differ on what it means to be moral, they agree that it is good to be so”. Continua a leggere