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allevamento, antispecismo, bambino, genitori, giocattolo, gioco, infanzia, pedagogia, Rodrigo Codermatz, specismo
di Rodrigo Codermatz
Passeggio per la città e osservo la vetrina di un negozio di giocattoli: una linea di una nota marca riproduce modellini delle più invasive e perniciose attività umane volte allo sfruttamento e alla morte animale; ecco allora pescatori in un tranquillo fiume canadese, scene di caccia alla marmotta, safari africani e poi molte realtà quotidiane come lo zoo, il circo, il campo cinofilo e l’addestramento dei cani, c’è addirittura il bracconiere in quad. Più in là il maneggio e, infine, la ciliegina sulla torta: un allevamento con le mucche costrette alla mangiatoia.
Mi rendo conto più che mai che la società ha scelto per il bambino il suo nuovo debole: l’animale va sostituendo pian piano il povero indiano delle nostre vecchie scorribande nei campi o per le vie del paese vestiti da cow-boy.
Osservo bene questi giocattoli con incredulità: stiamo mettendo nelle mani dei nostri bambini affinché ci giochino, presentiamo alla loro fantasia e immaginazione degli allevamenti, dei maneggi, delle battute di caccia, dei safari, dei delfinari, dei circhi, degli zoo! Ma abbiamo a cuore le loro vite, il loro futuro o lasciamo che il sistema ce li trasformi in automi devastatori, distruttori, in veri e propri serial-killer?
Ci rendiamo conto cosa vuol dire far giocare un bambino con un allevamento, con una serie di mucche messe in fila come rotelle di un ingranaggio? Ci rendiamo conto cosa vuol dire trasformare in gioco un’incursione venatoria in una foresta tropicale, la cattura e la deportazione se non la stessa uccisione in loco di diverse specie animali? L’imprigionamento di specie abituate a muoversi, nuotare e volare in uno spazio di centinaia di chilometri ci è presentato ideologicamente come gioco educativo o “tradizione” ma in realtà è vero e proprio messaggio subliminale che rivendica la podestà umana sull’animale.
Questa specie di giocattoli e di mercato è in parte una cifra della crisi del ruolo del genitore nella nostra società, un genitore che svaluta e semplifica sempre più le sue funzioni educative lasciando che la società veicoli e controlli le inclinazioni e la personalità del bambino; un genitore acritico, superficiale, disattento (quante volte compra senza pensare?), per nulla lungimirante, suggestionabile, immaturo, tutto preso a far sì che il figlio “si faccia strada”, primeggi, eccella, si distingua dagli altri: questa logica combacia in fin dei conti con la logica degli allevamenti e dei circhi e fa del bambino uno status symbol quale l’automobile, la casa, le vacanze, o un mezzo di rivalsa su se stessi, sulle proprie frustrazioni e sugli altri in un rapportarsi sempre più competitivo.
Questi giocattoli entrano nell’ambiente del bambino, nel suo cassetto, nella sua cesta, nella sua stanza, e assumono subito, come d’altronde tutte le cose che abitano l’infanzia, un’indelebile funzione mitologico-pedagogica con un messaggio ben definito; un messaggio dittatoriale, che non ammette repliche, a-dialettico che impone una certa visione della realtà.
Attorno a questa materialità pedagogica si istituisce un’architettura del trovarsi gettato che prende corpo e si incarna nel bambino: è la trans-substantiatio ossia la conversione dell’ambiente nel corpo che segna sempre un ritardo, un’isteresi, come disse Sartre parlando di Madame Bovary di Flaubert, uno scarto biologico sull’emergenza del reale. 1
Quand’ero bambino i nostri nonni ci parlavano del re Vittorio Emanuele III ch’era stato sul campanile del nostro paese, di Churchill e del suo sigaro, di Stalin, vedevamo film in bianco e nero sulla Seconda Guerra Mondiale, su Hitler e il nazismo: questa era la guerra che noi incorporavamo e i nostri soldatini erano tedeschi, inglesi, francesi, russi, giapponesi e italiani; nella nostra guerra non c’era la bomba atomica né il Vietnam e neppure il terrorismo, troppo attuali, ma neanche le foibe, i titini e i partigiani, troppo vicini, e l’Africa entrava nei nostri giochi solo grazie agli elefanti o rinoceronti in gomma e Tarzan. Una guerra di armi convenzionali, battaglia corpo a corpo, di trincea e non di rifugi antiatomici, “guerra di confine”, “invasione” territoriale tra confinanti: non conoscevamo il colonialismo e lo sfruttamento.
La guerra che l’ambiente m’aveva fatto metabolizzare e incarnare era quella che mio padre visse in prima persona, quando, a sua volta, giocava agli indiani e cow-boy o alle guerre Napoleoniche e prussiane: mio padre non giocò mai alla Guerra Mondiale.
Questo scarto temporale, questo “deposito” (come si dice di un vino) è l’anima (come quella dell’aceto) che nella trans-substantatio si incarna in noi e diviene ideologia.
Veri e propri strumenti ideologici, i nostri giochi infantili influenzano ora emotivamente e affettivamente la nostra capacità media di comprendere entro il concetto di guerra anche i conflitti “periferici” del terzo mondo o del sud-est asiatico e, non avendo metabolizzato l’imperialismo e il colonialismo, siamo ancora incapaci di inserire un episodio terroristico in un quadro bellico più vasto, in un quadro di sfruttamento, estorsione, ed estromissione.
E in questi giorni ne vediamo il risultato: la nostra generazione è cresciuta credendo e vedendo la guerra solo come una questione occidentale; esiste solo se colpisce l’Italia, l’Inghilterra, la Germania o la Francia; la guerra nelle altre zone non esiste (o per lo meno, questo è il nostro vissuto), rimane ai margini del nostro sguardo, del nostro interesse, della nostra preoccupazione.
Le istanze culturali del nostro ambiente si fissano in noi come sguardo e visione sul mondo, fornendoci uno scenario virtuale in cui ci muoviamo a nostro agio relegando queste realtà periferiche nell’intravisto, nello “sfocato”. Continua a leggere